Ieri sera a mezzanotte meno una manciata di secondi, stappando una bottiglia di Brachetto Duchessa Lia, mi si sono accavallati i pensieri. Scorrevano immagini come un film in rewind, all’indietro. Tornavano a quei primi casi di Pandemia in Italia, 20 gennaio 2020. Siamo dentro il tunnel da circa due anni. Cos’è cambiato, nel nostro modo di essere e di fotografare? Sì perché un poco siamo in quanto fotografiamo, le nostre fotografie siamo noi, nel bene e nel male, spero sopratutto nel bene.
Ricordo gli inizi, tutti volevano fotografare strade e piazze deserte, documentare quel vuoto. Poi mascherine, situazioni reali del nostro tremendo giornaliero vissuto, andandolo a cercare nelle vite di altri, per fissarlo, per tramandarlo ai posteri. Anche per esorcizzare, perché in fondo la fotografia è anche esorcismo. Isolare un attimo da un prima, da un poi, per renderlo simbolico. L’esorcista fotografo utilizza l’intensità del suo credo, preghiere scaramantiche, tecniche, formule prestabilite, per compiere il rito. Quell’attimo è sincretico, un insieme di malefico e divino, di possessione magica. La percezione sincretica è la particolare tendenza della psiche infantile ad assumere la realtà esterna globalmente anziché nei suoi particolari. Noi nell’attimo del click torniamo bambini, felici, sia quel che sia. Forse mai come in questi ultimi mesi la fotografia è esorcismo, nel senso concreto di cacciare la possessione malefica, allontanare la malattia, andare oltre, tornare alla normalità magari banale, meglio dell’incubo. Più raramente si vedono nuovi progetti e fotografie che testimoniano l’attuale stato delle cose.
Sperabilmente lo stato delle cose sta evolvendo in modo positivo, ci vorrà ancora tempo ma con la nostra fotografia cerchiamo di andare oltre. Forse con un velo di tristezza, ma spesso è insita in noi fotografi, in fondo siamo per lo più dei romanticoni, ci piace inseguire un sogno che vola rapido altrove, come una farfalla.
Tolgo scrupolosamente la stagnola dal collo della bottiglia, inizio ad armeggiare con la gabbietta che ferma il tappo. Sullo schermo della TV si avvicendano immagini, suoni, voci, “l’anno che verrà”, troppo rosso ancora sullo sfondo.
Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’
E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò
Da quando sei partito c’è una grande novità
L’anno vecchio è finito, ormai
Ma qualcosa ancora qui non va
Si esce poco la sera, compreso quando è festa
E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra
E si sta senza parlare per intere settimane
E a quelli che hanno niente da dire
Del tempo ne rimane…
Eh sì “qualcosa ancora qui non va”… Amadeus, Massimo Ranieri, Malgioglio, Orietta Berti. Ma ditecelo che ci volete del male! Avremmo dovuto uscirne migliori, invece il sonno della ragione nel quale forse vogliono lasciarci immersi sta rendendoci mostri.
Stiamo fermi a “finché la barca va” del 1970… sono passati oltre 50 anni.
Per reazione mi par di sentire nella mente le note di un’altra canzone.
“We Can Work It Out” Beatles, 1965.
Ce la possiamo fare, ne possiamo uscire. Vabbè il testo intende dire altro, però mi sembra un augurio migliore.
Ho tolto la gabbietta rossa, mancano ancora pochi secondi. Tengo con una mano stretto il tappo, con l’altra la bottiglia, alla base. Maledizione, il tappo non spinge!
Riuscirò a fare saltare il tappo nell’attimo fuggente, in quell’attimo che segna il confine tra due anni, sperabilmente diversi?
Ansia da prestazione.
Alla fin fine stappare la bottiglia di mezzanotte è un poco come azzeccare una fotografia importante. È una responsabilità sociale enorme, attorno tutti i nostri cari ci guardano, non possiamo deluderli, non possiamo sbagliare.
Scorre ancora all’indietro la pellicola, a quegli anni lontani, ai tempi dell’analogico, a quando non sapevo se una fotografia fosse venuta o meno e se sarebbe stata come la desideravo. Certo l’esperienza anno dopo anno aiutava però l’ansia da prestazione era sempre presente. Si cercava di esorcizzarla controllando scrupolosamente i propri strumenti prima di un servizio, riordinando la borsa, cercando di mettere precisamente in ogni scomparto, in ogni tasca, in perfetto ordine, tutto quello che sarebbe potuto servire. Non poteva certo essere sufficiente a eliminare l’imprevisto. Però aiutava a stare tranquilli, sentirsi sicuri. L’imprevisto era dietro l’angolo.
Ricordo l’unico servizio matrimoniale, fatto per amici. Il momento dello scambio degli anelli. Scatto e si accende il flash, ma il mio udito mi avverte, qualcosa non è andato come avrebbe dovuto. Avevo una Mamiya 645, otturatore a tendina, controllo, eh…. acc!!! Inavvertitamente il tempo di scatto si è spostato a 1/125…. fuori sincro!!! Correggo a T.1/60, però quello scatto è fottuto, angoscia pura. Sono assistito dal fato benigno. Avevo ripreso in verticale, una zona del fotogramma è nera, l’altra illuminata il giusto dal flash. Fortuna è la zona che mi serviva, lo scatto non è perfetto ma è salvo.
A Robert Capa, nonostante la sua enorme capacità avvenne di peggio. Delle sue fotografie dello sbarco in Normandia se ne salvarono una manciata.
“La stanza pare fosse troppo calda e l’addetto allo sviluppo nonostante questo chiuse la porta, quando tornò i negativi erano irrimediabilmente fusi e grigi, solo uno spezzone di undici fotogrammi, il più lontano dalla fonte di calore, era sopravvissuto, mostrando immagini comunque rovinate e confuse per via dell’errore, quelle che conosciamo tutti.”
Esiste ancora l’ansia da prestazione in questa era di fotografia digitale? Nelle mirrorless già nel mirino si vede come verrà lo scatto, con le reflex si può ricontrollarlo un attimo dopo. Poi, per carità, un incidente può succedere comunque, può fottersi la scheda SD, può succedere altro. Secondo la ben nota prima legge di Murphy «Se qualcosa può andare storto, lo farà». Dunque, se va bene, tutto bene?
Insomma. Ai tempi dell’analogico si guardava solo nel mirino ci si concentrava al massimo nello scatto, nell’inquadratura. Si poteva rivedere e controllare solo dopo.
Il momento dello scatto si ripeteva spesso in altri scatti, si cercava l’attimo saliente, più significativo, senza distrarsi. Oggi, col digitale spesso si è soliti ricontrollare immediatamente dopo aver scattato, si ripete lo scatto solo se non è venuto bene.
Può accadere che lo scatto migliore, e amaramente, quello che non abbiamo realizzato, sia tra due scatti, perduto nel tempo che abbiamo impiegato a controllare.
Ok, al di la e oltre i miei pensieri sbilenchi, buon anno a tutti, con l’augurio di scatti stupendi, esenti da ansia di prestazione!
Ah per la cronaca, il tappo è saltato nell’attimo preciso.
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