Il taglio di Fontana è il gesto che apre la luce al buio e il buio alla luce; un ossimoro che si completa in un controverso buio luminoso che pervade l’atmosfera. Tra luce, buio e ambiente si crea un’unità, un luogo dove si scambiano le emozioni, una sorta di metafora visuale dell’Inconscio, il luogo crepuscolare dove alloggiano tutte le immagini e le emozioni della nostra vita… Tante sono state le imitazioni delle opere del grande maestro, ma nessuna di esse ha mai saputo eguagliarlo. Ebbene si un taglio falso, un falso d’autore, si riconosceva da un originale. Quello di Lucio Fontana non era semplicemente un taglio fatto a caso, bensì era un singolo gesto veloce, istintivo eppure meditato, prezioso, ricco di significati, che quasi diventava una danza. La sua sicurezza nell’incidere la tela era imparagonabile.
Interessantissimo il dialogo tra Lucio Fontana e Ugo Mulas, incaricato di fargli un ritratto mentre era all’opera.
“Se mi riprendi mentre faccio un quadro di buchi”, aveva confessato Fontana a Mulas, “dopo un po’ non avverto più la tua presenza e il mio lavoro procede tranquillo, ma non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove intorno a me. Sento che se faccio un taglio, così, tanto per far la foto, sicuramente non viene… magari, potrebbe anche riuscire, ma non mi va di fare questa cosa alla presenza di un fotografo, o di chiunque altro. Ho bisogno di molta concentrazione. Cioè non è che entro in studio, mi levo la giacca, e trac! Faccio tre o quattro tagli. No, a volte, la tela, la lascio lì appesa per delle settimane prima di essere sicuro di cosa ne farò, e solo quando mi sento sicuro, parto, ed è raro che sciupi una tela; devo proprio sentirmi in forma per fare queste cose”.
Spesso si dice di una fotografia “che bella, sembra un quadro”, assimilandola a opere pittoriche/grafiche. Altrettanto spesso, dato che come tutti ben sappiamo, fotografia significa “scrittura con la luce” si pensa ad analogie tra l’atto di fotografare e lo scrivere. Per come la vedo io entrambi gli approcci sono sbagliati. Chi opera in campo grafico/pittorico ha davanti a sé una tela, un foglio bianco, chi fotografa ha davanti a sé un qualcosa che desidera riprendere, rappresentare, non può prescindere da tale realtà anche se può trasfigurarla.
Per quanto riguarda la scrittura Gabriele Chiesa puntualizza in “Come vedo l’immagine”: L’espressione verbale è concettuale. L’immagine, e particolarmente quella fotografica, è oggettuale. Una figura può possedere anche un’intensa connotazione, ma rappresenta pur sempre la propria realtà concreta.
In altri termini, puoi scrivere “Casa”, “Cane” ecc. ma se fotografi non fotografi il concetto di Casa, di Cane, fotografi quella casa, quel cane. La sintesi che conduce a un’opera pittorico/grafica, o scritta, inizia da un foglio bianco, in fotografia inizia dall’inquadratura. Come abbiamo letto in incipit l’opera di Lucio Fontana, spiegata da un critico, ci diventa chiara. In un certo senso è anche affine alla fotografia quel creare un’unità, un luogo dove si scambiano le emozioni, tra luce, buio e ambiente.
Ho sempre forti dubbi sul fatto che una fotografia possa essere spiegata. D’altra parte spesso si dice: “un’immagine vale più di mille parole”.
Intendendo che “può essere più facile mostrare qualcosa in un’immagine che descriverlo pronunciando parole o usando la parola scritta.”
Tant’è, spesso nel commentare una fotografia mi limito a scrivere “bella”in modo assolutamente soggettivo, senza spiegare ulteriormente. Se mi chiedessero: “Ok, ma perché bella?” dovrei psicanalizzare l’autore e anche me stesso. Magari potrei riuscirci ma non è lo scopo della mia vita.
Una fotografia o mi arriva o non mi arriva, se mi arriva si è creato un ponte tra me e l’autore, se non mi arriva non si è creato alcun ponte, non fluisce alcuna “comunicazione”.
Colpa mia, colpa dell’autore? Di entrambi? Credo sia irrilevante, in ogni caso è una questione del tutto soggettiva, Quello che colpisce me, fotograficamente parlando, può restare indifferente ad altri e viceversa. Non mi piace condizionare l’osservatore con le mie personali impressioni sul lavoro di un fotografo, potrebbero essere fuorvianti, o peggio, potrebbero togliere al fruitore in piacere di una scoperta personale.
Molti anni or sono presi delle grandi cipolle in un forno a Mascalucia (CT). Erano orribili da vedere, sembravano enormi fiori dai petali sbruciacchiati, immangiabili, vincendo la repulsione, assaporandole, strato dopo strato si arrivava al centro, pura poesia. Da quella volta penso che le fotografie siano come le cipolle al forno, fatte di molto strati sovrapposti.
Viviamo in una civiltà delle immagini, ci scorrono attorno, diventano surface, superficie, fatte per essere consumate, ci scivolano da dosso, alla fin fine ci fanno perdere ogni immaginazione. Non c’è nulla di più assurdamente tremendo di immagini che non suscitano alcuna immaginazione. Come scriveva Umberto Eco “sono sfornate a macchina e, per di più, in migliaia di esemplari. La serialità dell’immagine è un altro fenomeno di cui occorre tener conto se si vogliono capire molti aspetti della nostra civiltà”.
La vittoria è di chi sa soffermarsi, distinguere, opporsi al tempo che scorre, resistere un attimo di più. Come premio avrà il centro succulento della cipolla.
Questi pensieri mi sono sorti recentemente in un dialogo col caro amico, fotografo, Ruggero Ruggieri.
Qui ci racconta il suo percorso nella fotografia, per certi versi simile a quello di molti di noi, per altri versi peculiare, unico, come siamo tutti unici:
“Avevo circa 14 anni quando presi in mano per la prima volta una macchina fotografica. In realtà non era la mía macchina fotografica, ma quella del fotografo del quartiere dove vivero. Non avevo i soldi per comprarmene una e allora feci un patto: lui mi imprestava una vecchia Agfa ed io in cambio gli facevo sviluppare e stampare le mie foto. Poi finalmente con i primi soldi guadagnati la “mía prima”, una Pentax K1000, tutta manuale esposimetro + e – , e via a scattare.
Avevo cominciato a frequentare una bottega fotografica, l’affascinante mondo della camera oscura, a conoscere i fotografi della mia città, ad aprire gli occhi insomma.
Erano gli anni 70 e da studente di liceo prima e di università poi ( architettura a Venezia) la mia mitica K1000 fu messa a dura prova.
Ugo Mulas e le sue verifiche erano per me pane quotidiano, mi ponevo domande e cercavo risposte, continuamente.
Facevo anche il free-lance per un giornale di provincia e il confronto con una certa realtà fatta di personaggi e storie di tutti i giorni mi spingeva sempre più a riflettere sull’uso e sul potere del mezzo fotografico (a volte mi sembrava di essere armado).
Capii con il tempo che non era quello il campo che mi interessava esplorare e, complici gli studi universitari, orientai i miei interessi verso un’analisi del paesaggio.
Leggevo e soprattutto assorbivo Ghirri, Basilico, Baltz, Shore solo per citare gli autori che più in quel periodo mi attraevano.
Filtravo le loro teorie e i loro pensieri con le mie letture (i francesi soprattutto da Camus, Sartre a Augè), il cinema di Antonioni e Wenders.
Il paesaggio, quasi sempre urbano, che si legge nelle mie fotografie di quel lungo periodo è anche in fin dei conti un’analisi sull’uomo, sul suo tempo, sulle relazioni sociali, sulla sua vita in città che sono popolate da, per citare Rilke, “uomini di solitudine”.
Poi, come spesso accade nella vita, succede qualcosa che colpisce l’animo, ovvero la morte dei miei genitori, e che mi ha spinto ad una riflessione intima sul mio modo di fare fotografia.
“Quando guardi le mie fotografie, leggi nei miei pensieri” afferma Duane Michals.
Ho iniziato così un progetto, nel 2016 e terminato nel 2019, sull’identità partendo da Italo Calvino e dal suo “Se una notte d’inverno un viaggiatore” arrivando a Paul Ricoeur, filosofo dell’alterità.
Si tratta, nell’ordine di Voyage, I’m one, I’m another, I-dentity.
Poi la pandemia, la perdita per gran parte del genere umano di sicurezze, di punti di riferimento. La consapevolezza della propria debolezza e il senso di smarrimento che si impadronisce del nostra anima.
“Scrivevo silenzi, notti, notavo l’inesprimibile, fissavo vertigini”.
Arthur Rimbaud.
E su queste sensazioni che nasce “La notte mi viene a cercare“.
La notte permette all’uomo di aprire gli occhi dell’anima, all’essenza profonda della realtà. La notte ha una valenza molto forte: è il momento, nelle mie fotografie, dell’istinto e dell’inconscio, ove appaiono misteriosi i luoghi e le figure diventano ancestrali e mitologiche. Figure appena accennate, sfuocate, indefinite che evocano fantasmi.
E poi momenti carichi di attese, appesi al filo della memoria.
E ancora la natura, con i suoi disegni, che mi rimanda all’infinito. E’ il momento della riflessione, del ritrovarsi soli con se stessi, del guardarsi dentro…
Un momento che appartiene alla vita di ognuno. La notte come metafora del mio vissuto, ” un journal intime” nel quale annoto, giorno per giorno ricordi e sogni.
Un viaggio dentro di me, un viaggio dentro la mia anima.
Come fossi Mr. Quinn tanto caro a Paul Auster…
La notte mi viene a cercare
Fotografie di Ruggero Ruggieri
Questo libro nasce grazie all’incoraggiamento del caro amico Giuseppe Cicozzetti, che ne ha curato la presentazione, a Roberta Cuzzolin, Claudio Matarazzo e Paolo Pozzobon per avermi aiutato nell’editing e a Paolo Celotto per il progetto grafico.
A loro un sincero ed affettuoso ringraziamento.
Lascia un commento