Più o meno tutti sappiamo che la prima fotografia della storia (più precisamente una eliografia) è quella scattata dall’inventore Nicéphore Niépce nel 1826, nota come “Point de vue du Gras” o in inglese, che fa più figo “View from the Window at Le Gras”, insomma uno scatto che richiese circa 8 ore di esposizione dalla finestra di Gras. Interessante anche il fatto che a causa di questo lunghissimo tempo di esposizione l’illuminazione naturale fornita dal sole arriva sia da destra che da sinistra.
Trovo affascinante, in un certo senso modernissima, l’idea di imprimere in un’ unica immagine fotografica l’idea dello scorrere inesorabile del tempo. Potrebbe essere una fotografia concettuale se non fosse che non era minimamente nelle intenzioni dell’autore. Potrebbe essere realizzata ai nostri giorni, con abili interventi in Photoshop. Per renderla indefinita, sgranata, contrastata, come i risultati di molti attuali autori che si dedicano alla fotografia artistica. È assai interessante che, proprio oggi che la fotografia digitale permette nitidezza e risoluzione incredibili, non pochi autori rifiutino concettualmente tale precisione. La percepiscono come un limite ad una libera interpretazione. Mostra troppo la tecnologia fotografica attuale, non suggerisce. Mi sono divertito a rielaborarla a colori, ripensando a certi interventi di Andy Warhol su un ritratto di Marilyn Monroe.
La vedo come la massima “icona della Fotografia”.
Molte fotografie sono diventate icone, come il celebre ritratto di Che Guevara realizzato da Alberto Korda poi resa celebre da Feltrinelli, rielaborandolo eliminando i mezzi toni e aggiungendo lo sfondo rosso. Tempo fa esisteva uno script per realizzare in pochi tocchi di Gimp un ritratto stile Che, si può continuare a farlo.
Più o meno allo stesso modo la fotografia che tutti conosciamo come “Point de vue du Gras” ha ben poco a che vedere con l’originale che è stato ritrovato, praticamente illeggibile. Ahimè la cultura fotografica diffusa per lo più in Italia è derivativa, frettolosa, frutto di copia /incolla perde per strada alcuni brandelli non del tutto irrilevanti.
Eppure le fonti ci sono, basta cercare.
Così trovo su Wikipedia che quello che per lo più conosciamo visivamente di quella celebre foto è frutto di un ritocco fotografico eseguito dagli storici Helmut Gernsheim e Alison Gernsheim (sua moglie) che ritrovarono la fotografia nel 1952 e la portarono alla ribalta, rielaborandola addirittura anche a colori.
“Nei laboratori di ricerca della Kodak si tentò di creare una moderna copia della fotografia, ma si rivelò estremamente difficile produrre un’adeguata riproduzione di quanto si possa vedere attraverso l’ispezione della placca originale. Gernsheim ha quindi ritoccato pesantemente con degli acquerelli una delle copie per ripulirla e rendere la scena maggiormente comprensibile e fino ai tardi anni ’70 ha consentito di pubblicare solo questa versione migliorata. L’effetto puntinato presente nella rappresentazione di Gernsheim è dovuto al processo di riproduzione della fotografia, ed è invece assente nell’originale.”
Insomma è diciamo così una sorta di opera concettuale, ha precise motivazioni. Tuttavia la faccenda non finisce qui…
In uno studio degli anni 2002-2003 gli scienziati del Getty Conservation Institute hanno esaminato la fotografia servendosi della fluorescenza X, della spettroscopia infrarossa e di altre tecniche. Mediante questi studi si è riusciti a confermare che l’immagine è costituita da bitume e che il metallo della placca è quasi puro stagno, cioè peltro di alta qualità. L’istituto ha inoltre progettato e realizzato l’elaborata teca da esposizione nella quale viene ora conservata la fotografia, in un ambiente continuamente monitorato, stabilizzato, e privo di ossigeno. Questo speciale involucro nel quale viene esposta la fotografia è posizionato inoltre in una luce ed una posizione ottimali per la visualizzazione da parte del visitatore, al quale si consiglia di guardarlo dai suoi angoli inferiori, per una visione più chiara.”
Insomma, diciamocelo, “Point de vue du Gras” è una sorta di sindone che crediamo per fede. Per vedere un qualcosa che possiamo immediatamente percepire come fotografia si arriva agli splendidi esemplari realizzati da Daguerre con la tecnica che da lui prese il nome, tra il 1837 e il 1838. Pochi anni dopo già sorgono diatribe non da poco.
Jozef Maximilián Petzval, nel 1840, progettò il suo famoso obiettivo da ritratto, il primo obiettivo calcolato matematicamente: quattro lenti che garantivano una elevata luminosità (f/3.7) ed il conseguente abbattimento dei tempi di esposizione. “Il 1845 fu un anno segnato da contenziosi con l’imprenditore Peter Wilhelm Friedrich von Voigtländer (1812–1878) riguardo al diritto di produrre le lenti di Petzval. Nel 1859, la casa di Joseph fu derubata, ed i suoi manoscritti — il risultato di anni di ricerca — andarono persi. Petzval non riuscì più a recuperare i documenti persi. Il suo prezioso libro sulle tecniche ottiche, perso insieme ai manoscritti, non fu mai stampato”.
Chiamala sfiga se vuoi, potrebbe essere anche altro. Indubbiamente tutto quello che ruotava intorno alla fotografia era anche al centro di enormi interessi economici, d’altronde, si era agli albori della rivoluzione industriale. Il progresso era assai rapido per i tempi, ancora non esistevano i computer. Tuttavia la fotografia doveva diventare un fenomeno di massa, non un giochino solo per benestanti sfaccendati e curiosi. La Kodak n.1 di George Eastman.
Commercializzata nel 1888, fu la prima macchina fotografica Kodak venduta con la sua dotazione di pellicola già montata. Terminati gli scatti, la macchina veniva consegnata a un rivenditore che provvedeva a spedirla ai laboratori di sviluppo e stampa di Eastman, che in breve tempo recapitavano al destinatario le fotografie con l’apparecchio debitamente ricaricato: “You push the button, we do the rest” era l’appropriato slogan che pubblicizzava l’apparecchio e l’impeccabile servizio della Kodak.” La prima era praticamente una scatola con foro stenopeico, successivamente arrivarono altri modelli, più evoluti, con un vero obiettivo. Tutti ovviamente semplicissimi da usare, come dicono gli anglofoni, idiot-proof.
Immagino che i fotografi professionisti di quei tempi non fossero molto entusiasti di tale democratizzazione a buon mercato dell’arte fotografica. Tuttavia in fondo non tolse loro granché. Potevano essere fotografie di famiglia in compleanni, ricordi di viaggi. Gli utenti erano comunque consapevoli che per avere un ritratto di famiglia perfetto, oppure una bella documentazione del proprio matrimonio, bisognava rivolgersi ad un professionista. Quella numero 1 continuò così ad evolversi, ad essere in ogni casa sino agli anni ‘90, con le Instamatic.
Aveva assolutamente ragione Nadarv quando diceva “La teoria fotografica si impara in un’ora; le prime nozioni pratiche in un giorno… quello che non si impara… è il senso della luce… è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate… Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.”
Operativo circa dal 1985 fu forse il primo fotografo assolutamente consapevole tanto della sua professione quanto della fotografia come fenomeno di massa.
Al dunque oggi viviamo in una fase assolutamente splendida e fertile della Fotografia. Gode di buona salute, peccato che i professionisti non se la passino altrettanto bene. Dopo alti e bassi dettati dall’avvicendarsi di nuove tecnologie che hanno abbacinato occhi e menti c’è un ripensamento. L’analogico, dato per spacciato è risorto dalle ceneri, fa assai figo. Vengono riscoperte tutte le tecniche antiche, dalle fotocamere a banco ottico, alle stenopeiche, alle medio formato, alle 35mm, ogni fotocamera analogica ha un suo perché, motivazioni tecniche e concettuali per essere prescelta rispetto ad altre. Vale anche per le fotocamere digitali e per ogni altro mezzo tecnologico idoneo a scattare una vera fotografia.
Come scegliere? Diceva saggiamente il santone: “le risposte non le devi cercare fuori, la risposta è dentro di te, epperò è sbagliata!”
Forse il vero problema sta proprio lì, nel cercare risposte da fuori. Nel cercare una identità derivata dall’approvazione di altri, che ci renda un po’ differenti, evidenti o addirittura noti, grazie all’utilizzo di una fotocamera rispetto ad un altra. Nello scambiare il mezzo per il fine. È la fotocamera a fare le fotografie o il fotografo? È assolutamente la fotocamera. Tant’è che senza fotocamera non si possono fare fotografie. A riprova di ciò quando incontri uno sconosciuto che fa fotografie la prima cosa che ti chiede è che fotocamera usi, e dalla tua risposta si fa un’idea di te come fotografo. L’abito fa il monaco, la fotocamera fa il fotografo. L’apparenza non guasta altrimenti perché si indossa un gilet da fotografo prof in missione per andare a zonzo in città?
Ogni mezzo per produrre fotografie ha le sue peculiarità che ovviamente non sono solo tecniche, influiscono sul risultato finale anche concettualmente. Ogni scatto col banco ottico costa non poco, ogni scatto in digitale, a prescindere che sia una fotocamera o uno smartphone, è praticamente a costo zero.
Ciò può portare allo scatto compulsivo ma anche sperimentazione e alla realizzazione di foto interessanti che altrimenti non scatteremo affatto. Ovvio che c’è una attenzione tecnica e una cura maggiore nello scattare in analogico, ogni sbaglio lo paghi e ti dovrebbe portare a riflettere di più prima di scattare. Il risultato dovrebbe essere una prova precisa di quello che avevi in mente di mostrare ad un possibile osservatore. Tuttavia Ansel Adams ammoniva: “non c’è niente di peggio della stampa nitida di un concetto sfocato”.
Vale per qualsiasi mezzo fotografico di ripresa, ma è fondamentale credo quando le riprese avvengono su pellicola.
Non basta alzare gli ISO per aumentare la sensibilità. Al dunque sono necessarie competenze tecniche per fare il fotografo? Se si vuol essere fotografi professionisti sono un prerequisito importante, sfortunatamente non c’è un esame tipo patente di guida per potere accedere alla professione. Viceversa chi fotografa per diletto personale con lo smartphone, magari anche per esporre, potrebbe non avere la minima conoscenza tecnica. Se piacciono o addirittura vengono comperate va bene così. Però, almeno da parte mia, se vedo una foto scarsa, in tecnica e contenuto, ripresa con uno smartphone ci passo sopra, lo considero un fatto normale. Dettato magari dalla fretta di scattare. Se però osservo una foto scattata con una costosissima fotocamera, con mille attenzioni in ripresa, e la trovo scarsa per gli identici motivi, allora che siano stati spesi tanti soldi per realizzarla, che l’autore se ne vanti, per me è una aggravante. Ovviamente è un criterio di valutazione estremamente personale.
Ma in termini di qualità diciamo così assoluta come la mettiamo? Esiste una qualità assoluta? Si può misurare in megapixel o linee per millimetro?
Lo Xiaomi 12T Pro mette a disposizione 200 Megapixel.
“…La fotocamera principale utilizza il sensore Samsung HP1, un design Tetra2pixel che ha lo scopo di raggruppare i suoi minuscoli pixel da 0,64 µm da 16 a 1, per avere pixel combinati di 2,56 µm. È anche uno dei sensori più grandi in assoluto nel settore, con un formato ottico di 1/1,22… ” in pratica, secondo l’articolo citato, i migliori risultati pare si ottengano a 50megapixel da 2,56µm.
Quanto sono grandi i granuli d’argento? Dipende dalla sensibilità della pellicola. Media sensibilità: prima dello sviluppo da 1/2 a 1 micron circa, dopo lo sviluppo da 1 a 2 micron circa. Alta sensibilità: prima dello sviluppo da 1 micron e 1/2 a 2 micron e 1/2 circa dopo lo sviluppo circa 3 micron.
Il micron è il termine improprio usato per indicare un’unità di misura, con simbolo µ, coincidente con il micrometro, unità di misura della lunghezza (con simbolo µm) pari a un milionesimo (10−6) di metro.
“Questa fotocamera ha un campo visivo di 85 gradi secondo le specifiche Xiaomi, che si traduce in una lunghezza focale equivalente di 23mm. L’apertura sullo Xiaomi è da f/1.7. C’è la possibilità, come detto, di avere anche un’opzione di risoluzione in più come quella intermedia da 50 MP che forse risulta anche la più interessante. Le dimensioni dei file non sono trascurabili, ma la definizione migliorata lo compensa. Questo non si può davvero dire della modalità a 200 MP, in cui le dimensioni dei file sono piuttosto significative (45-85 MB) e comportano poco aumento dei dettagli rispetto agli scatti a 50 Megapixel.”
Almeno per ora il confronto della grandezza pixel e granuli d’argento può tranquillizzare il fotografo tradizionalista analogico rispetto alla corsa ai megapixel. Tale corsa è giustificata?
In parte lo è per strategia di marketing, però a pensarci a questo punto non sarebbero giustificate nemmeno le corse automobilistiche in pista che portano auto a sfrecciare a oltre 350 Km/h dato che la velocità massima in autostrada è di 130 Km/h. Se non ci fosse tale ricerca tecnologica staremmo ancora con auto che a malapena sfiorano i 100Km/h in discesa, senza contare altri vantaggi in termini di sicurezza.
Ma megapixel a parte quali le peculiarità interessanti degli smartphone? Sono una grande profondità di campo e la possibilità di riprendere più che discretamente in scarsa luce ambiente. In fondo ci si riallaccia anche qui al passato, ai tempi delle spy camera tipo Minox usate per trafugare documenti riservati.
Utilizzavano una pellicola dal fotogramma di 8 mm × 11 mm. Solo con pellicola a bassa sensibilità, e quindi scarsa gamma tonale ma altissima risolvenza si ottenevano riproduzioni buone. Rispetto alle Minox il passo avanti degli smartphone è evidente. In ogni modo non è che le attuali fotocamere degli smartphone sovvertano le leggi della fisica ottica.
Qui bisognerebbe fare un discorsetto sul “circolo di confusione” se si vuole capire qualcosina a proposito messaa fuoco, nitidezza e profondità di campo. Non solo perché al circolo di confusione è legata la percezione di nitidezza di una stampa fotografica, vista da una distanza x e ingrandita di tot. Capisco che si tratti di un argomento per lo più ostico a molti, tuttavia ha una importanza rilevante.
Attualmente per spettacolarizzare le esposizioni fotografiche di noti autori si tende a produrre delle gigantografie da pellicole formato 35mm. Tutto ciò con varie tecniche digitali ma il risultato, come visto anni or sono in una mostra di Salgado può essere davvero orrendo. Non ci si può avvicinare più di tanto alla stampa, pena l’emergere di evidenti artefatti.
Si perde il contatto con la stampa, sarebbe meglio per il 35mm non superare un ingrandimento 10x, arrivando in stampa al formato 24x36cm o al massimo arrivare a un ancora sano 30x40cm. Ingrandendo a 10x il formato 6×6 si arriva ad un’ottima stampa 60x60cm, che sarà cmq goduta ottimamente anche a ingrandimento 5x con un equilibrio tra ricchezza tonale, nitidezza e risolvenza che un negativo di formato inferiore non può raggiungere. Insomma pensiamoci 10 volte prima di fare costosi megaingrandimenti sia che provengano da scatti analogici che digitali.
Ovviamente anche gli obiettivi fotografici hanno grande importanza in tutto ciò.
Ovviamente un buon obiettivo per analogico o per digitale sarà sempre di qualità superiore ad un’ obiettivo per smartphone. Tuttavia non è detto che un costosissimo apo sia sempre la scelta migliore, dipende da quello che volete rappresentare.
Obiettivi come l’Helios -44 50mm o il “macro” Industar-61 L/Z 50/2.8 hanno una loro anima interessante. Sono proprio le aberrazioni ottiche o la conformazione del foro del diaframma ad una certa apertura a fornire risultati irraggiungibili da ottiche 20 volte più costose. Possono essere montati su apsc con un adattatore, in questo caso la focale equivalente è di circa 75mm. La messa a fuoco è completamente manuale, la resa è piacevolmente un poco morbida , meno tagliente delle ottiche originali.
Dunque è meglio il banco ottico o lo smartphone?
Dipende dal nostro approccio alla fotografia ma anche da come un osservatore percepisce il nostro lavoro. In assoluto direi che siano da evitare reciproci snobismi nel considerare diversi strumenti fotografici.
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