Forse il termine ‘insight’ può sembrare ostico a chi si occupa di fotografia, per diletto o per professione. Spesso si è interessati a cose più concrete, come la tecnica, le fotocamere, l’approccio corretto ai vari generi di fotografia, che sia street, reportage, architettura o altro. Magari si approfondisce un genere, cercando di imparare da chi lo pratica, o osservandone le fotografie o seguendone workshop.
Si parte da conoscenze di base e dallo specifico per arrivare forse al generale, io cerco di seguire un percorso opposto, cerco di partire dal generale per arrivare al particolare. Insomma un approccio se possiamo chiamarlo così ‘interdisciplinare’, se possiamo chiamare discipline i diversi generi di fotografia.
Cerco un modo di pensare alla nostra fotografia che ci permetta di migliorare, di approfondire, di imparare a vedere in modo fotografico. Insomma un approccio psicologico e forse filosofico, se si può ancora oggi ammettere che la filosofia sia la madre di tutte le scienze e racchiuda in sé la consapevolezza in ogni sapere.
La filosofia ha fatto sempre uso di semplici intuizioni, era una sorta di punto di partenza per poi arrivare a confronti sperimentali, da laboratorio.
Dunque cos’è questo insight?
Insight (letteralmente “visione interna”) è un termine di origine inglese usato in psicologia e definisce il concetto di “intuizione” nella forma immediata ed improvvisa.
L’insight consiste nella comprensione improvvisa e subitanea della strategia utile ad arrivare alla soluzione di un problema o della soluzione stessa – colloquialmente conosciuto come lampo di genio o con l’espressione inglese: “Aha! Experience”. A differenza di ciò che è considerato problem solving in generale, dove la soluzione del problema è raggiunta tramite una costruzione analitica e consequenziale, l’insight avviene in un unico passo e compare inaspettatamente nella mente del solutore. L’insight è spesso il risultato di una ristrutturazione degli elementi del problema, anche in assenza di preesistenti interpretazioni.
Una definizione intuitiva del concetto di insight è l’esclamazione “Eureka!”, attribuita ad Archimede di Siracusa nel momento in cui scoprì (tramite un insight) il suo noto principio.
Detto in modo semplice. Avete presente quando a un personaggio di un fumetto si accende la lampadina? Beh l’insight è quella lampadina che si accende, sintetizza l’avere trovato la soluzione a un problema. Poi da li alla soluzione del problema ce ne vuole, ma la lampadina che si accende ha illuminato il percorso.
Avviene anche fotografando, anche se non ce ne rendiamo conto perché non ci soffermiamo a pensarci. Invece si farebbe pene a fermarsi un momentino a pensarci.
Tuttavia l’insight è difficile da ripercorrere, è un poco come fare girare all’indietro la pellicola. Deriva forse da una somma di tutte le nostre esperienze e conoscenze precedenti l’arrivare all’intuizione, una sorta di punto di partenza per progredire e risolvere un problema. Ogni fotografia, l’ho già detto in passato, è una sorta di problema da risolvere. Non è solo questione di tecnica, anche se ovviamente è fondamentale avere alla base una tecnica sufficiente, è trovare il modo migliore di rendere un soggetto, l’angolazione giusta ma anche un perché. Troppe foto sono corrette ma non hanno un perché. Magari sono fatte di pancia, spontanee, ed è giusto che sia anche così ma dicono qualcosa solo a noi e niente a chi le osserva.
È anche il punto cruciale di ogni insegnamento o WS di fotografia come di altre arti.
Il fotografo, il critico, cercheranno di spiegarci come si è giunti a quel risultato finale, ma la verità e che non lo sanno affatto. Anche se lo sapessero a noi non servirebbe assolutamente a nulla. La fotografia sta lì, quella è. Punto. Ogni parola aggiunta serve spesso solo ad allontanarci dal comprendere. O addirittura confonde le idee, anche se strappa magari un ‘ohhhh!!!’ di profonda ammirazione.
Tuttavia ragionare su noi stessi, sulla nostra fotografia è assai importante, in questo periodo di reclusione forzata abbiamo tutto il tempo per farlo.
Dunque attraverso l’insight arriviamo finalmente al click, al momento esiziale. Nel lasso di tempo del click l’intuizione, l’idea si materializza in qualcosa che può restare. La luce entra, permette di scrivere l’idea, di registrarla su una superficie sensibile, sia essa pellicola o un sensore, non fa alcuna differenza. Ne resta traccia, memoria. Ricordo. Un attimo dopo potrebbe anche essere tutto diverso. Dunque il momento del click, che duri un’ora o una frazione di secondo è un momento di sintesi importantissimo, definisce anche la differenza tra un prima e un poi ed è l’unica cosa che resterà.
Forse è qui che inizia la vera e unica grande differenza tra lo scattare in analogico, su pellicola, o registrare l’immagine su un sensore. La latenza.
“La latenza (o tempo di latenza, in inglese latency), in informatica e telecomunicazioni, indica in un sistema di elaborazione dati e o di telecomunicazioni, l’intervallo di tempo che intercorre fra il momento in cui viene inviato l’input/segnale al sistema e il momento in cui è disponibile il suo output.” (definizione da Wikipedia)
In fotografia analogica si parla di immagine latente. La fotografia è avvenuta, un processo fotochimico ha registrato la vostra idea sulla pellicola. Sta lì, siamo certi che ci sia, ma non la possiamo vedere. Basterebbe esporre tutta la pellicola alla luce per distruggere per sempre ogni possibilità di portare la fotografia al suo stadio finale, ad una stampa, tipografica o su carta sensibile, o altro che tutti possano vedere. Quanto durerà questa latenza, questo limbo buio nel quale è sospeso un nostro possibile capolavoro, o comunque il risultato condivisibile dei nostri sforzi, delle nostre intenzioni? Può durare solo qualche ora, può durare molto di più, anche anni. Magari qualcuno in futuro troverà un rullino impressionato da noi e lo svilupperà, ne trarrà delle stampe e diventerà ricco, lui, non noi. Abbiamo scattato in B/N? Se siamo abituati a sviluppare per conto nostro, a meno di qualche incidente imprevedibile, avremo fiducia che andrà tutto bene, stareme sereni. Se abbiamo scattato a colori il più delle volte il nostro lavoro e il successo sono in mano di altri, sicuramente ottimi professionisti. Però qualcosa può succedere e non dipenderà da noi.
Per la tristemente nota legge di Murphy “Se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può condurre a una catastrofe, allora qualcuno la farà in quel modo”. Può accadere, sappiamo che può accadere, possiamo solo sperare che accada nel modo meno grave possibile. A me è successo di portare a sviluppare un rullo di diapositive, e verificare l’orrore. Chi doveva sviluppare non aveva letto l’etichetta, e aveva usato il procedimento chimico per i negativi colore. Fortuna che non era un rullo di diapositive importante. È successo solo a me,? Oh no, non sono l’unico sfigato della storia della fotografia! Da questo errore, facendo di necessità virtù, è nato il ‘cross-processing’, “una tecnica di sviluppo fotografico che altera in modo imprevedibile i colori della foto su cui viene applicata. Tipicamente si ottiene quando una diapositiva viene sviluppata con il bagno di un negativo C22 anziché con il normale bagno E6. Questa tecnica, conosciuta anche con il nome di XPro, viene scoperta per caso da diversi fotografi indipendentemente l’uno dall’altro, a seguito di un errore. È ampiamente utilizzata già a partire dagli anni ’60”…
Molte altre tecniche, come la solarizzazione, sono nate da un errore e dall’intuizione che da quell’errore si potesse ricavare qualcosa di interessante.
Da questa situazione derivava al fotografo una certa ansia da prestazione, risolvibile solo parzialmente col cercare di concentrarsi ed impegnarsi al massimo al fine che tutto andasse per in verso giusto.
In ambito di fotografia digitale cosa accade?
Si fa click e un attimo dopo si può rivedere l’immagine scattata sul display, se ne possono valutare gli errori. Tecnici e di inquadratura. Cosa ne è della latenza? È ridotta praticamente a zero. Da un lato benissimo, elimina l’ansia di aver sbagliato qualcosa, sempre se abbiamo la capacità di rilevare nell’immagine che vediamo sul display eventuali errori. Possono essere sia tecnici che di contenuto, espressivi e possiamo correggere il tiro, ripetere lo scatto.
Fateci caso, tutti i progressi tecnologici in ambito fotografico sono avvenuti per cercare di risparmiare tempo… ed evitare di pensare a quello che stiamo facendo.
Messa a fuoco automatica, centomila punti di messa a fuoco in un sensore. Alla fine non sappiamo dove abbiamo messo a fuoco. Automatismi di esposizione, obiettivi zoom, schede di memoria al posto della pellicola e quant’altro. Fretta, fretta, ma non pensavamo che la fotografia dovesse anche essere rilassante e nel contempo piacevole concentrazione?
“Il tiro con l’arco non mira in nessun caso a conseguire qualcosa d’esterno, con arco e freccia, ma d’interno e con se stesso. Arco e freccia sono per così dire solo un pretesto per qualcosa che potrebbe accadere anche senza di essi, solo la via verso una meta, non la meta stessa, solo supporti per il salto ultimo e decisivo.”
Fotocamere, rullini obiettivi e quant’altro sono i nostri archi, le nostre frecce.
Non ci aveva avvertito H. C. Bresson che per lui quel libro era il migliore manuale di fotografia?
Da alcuni anni la fotografia analogica riscuote vivo interesse tra i giovani nativi digitali. Beh avere al collo una fotocamera analogica fa anche figo, è di moda. Però è anche una storia da ripercorrere con calma e lentezza, pensando e facendo propri alcuni concetti per me importanti, come l’insight e la latenza. Possono avere ripercussioni importanti sul nostro modo di intendere e praticare la fotografia. Insomma scattare digitale con mentalità analogica si può fare e non è un male. Infilare nella fotocamera una scheda di memoria da 64 giga e pensare di stare scattando in pellicola ed avere solo 12 scatti a disposizione ci evita di riempire la scheda di immagini inutili o mal riuscite. Lo faremo ovviamente lo stesso , ma forse un po’ meno.
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