© 2014 – Gerardo Bonomo – New Old Camera srl
Buone vacanze! (e non dimenticatevi la vostra Kodak Instamatic)
Eh sì, ci siamo, arrivano le sospirate ferie, per tutti, quasi per tutti. Avete già fatto la canonica settimana a fine giugno? Pronti per il grosso del malloppo? State già pensando alla valigia, pardon, al trolley? O lo state disfando proprio in questo momento il trolley. Non preoccupatevi, anche per voi ritorneranno le ferie.
Cosa avete messo nella borsa fotografica? Come? Avete lo zaino fotografico? Fa lo stesso: cosa avete messo? Reflex e un nutrito parco ottiche? Mirrorless e un paio di focali fisse ultraluminose? Compatta raffinata? Macchina digitale che scatta solo in bianco e nero e ha la messa a fuoco a telemetro? (beati voi!) iPhone e alla via così? (contenti voi…)
Nessuno si porterà dietro la sua prima macchina fotografica, nel 99% dei casi la fida e affidabile Kodak Instamatic. Quanto sono cambiate le fotocamere in questi cinquant’anni! Sì, non solo le fotocamere. Anche le automobili, giusto per fare un esempio, sono cambiate, sono più sicure, meglio, hanno più dotazioni di sicurezza, tengono meglio la strada, se hanno i fari allo Xenon di notte illuminano di più di un faro su una scogliera, ma alla fine hanno sempre e ancora quattro ruote, come cinquant’anni fa, e per accenderle nella stragrande maggioranza dei modelli ci vuole ancora la chiave.
No, le fotocamere si sono molto più evolute.
E torniamo alla Kodak Instamatic, quindi probabilmente al giorno della vostra comunione – nel mio caso della cresima – a quella macchinetta che aveva giusto una levetta che si spostava tra il simbolo del sole e il simbolo della nuvola, un pulsante di scatto e una rotellina dentellata per far avanzare la pellicola, che dopo un paio di rulli avevi perso le impronte digitali sul pollice della mano destra. Quando si era fortunati si poteva contare anche su un paio di Cuboflash, appunto dei cubi con una lampadina annidata in ogni faccia, e ogni volta che si scattava una foto il Cubo girava sul lato successivo, come il tamburo di un revolver, e la lampadina appena usata era fusa insieme allo specchietto di plastica che le stava dietro da sembrare una reliquia di un olocausto atomico. Dalla Instamatic io passai a una Comet, NK135, Made in Italy, più precisamente Made in Milan (già, una volta a Milano c’erano perfino delle fabbriche di fotocamere): io ci vedevo la stessa differenza che passa tra un fuoco d’artificio e l’Apollo 11: diaframmi, qualche tempo di posa, messa a fuoco a stima – ovvero risultavano a fuoco solo i paesaggi all’infinito-; non avevo l’esposimetro e sovra o sottoesponevo mediamente di una decina di stop; quando ritiravo le stampe 10×15 era un miracolo se una su trentasei era nitida e correttamente esposta. La portai anche a una gita scolastica composta da due classi, quarta e quinta ginnasio, io ero in quarta, uno di quinta aveva una Canon FTb, assoluta fantascienza a quei tempi, sia per il tipo di macchina che per il fatto che un ragazzo la poteva possedere. Io lo tormentavo ogni cinque minuti chiedendogli il tempo e il diaframma da usare e lui, impietosito, mi aveva concesso una, anzi, due possibilità: mi avrebbe riferito l’accoppiata tempo/diaframma giusta, sì, ma solo due volte al giorno, una volta di mattina e una di pomeriggio. Per l’occasione avevo voluto usare il mio primo rullo di diapositive: ritirai dal laboratorio trentasei diapositive quasi completamente trasparenti, da tanto erano sovraesposte. Sono convinto – ovvio- che lui, anche se solo due volte al giorno, mi trasmetteva un’accoppiata tempo/diaframma volutamente sbagliata. Scherzi innocenti… in alcune parti del mondo ti fanno molto male per molto meno…
Poi in casa entrò la prima reflex, una Topcon Unirex EE col suo fido cinquantino. La ereditai, non a babbo morto, un’ora dopo che entrò in famiglia. Dovetti aspettare circa due anni per “ampliare” il parco ottiche con un 135mm che con due (due !!!) moltiplicatori di focale Kenko raggiungeva la temibile focale di 540 millimetri, perdendo una ventina di stop, utilizzabile quindi solo per fotografare il sole tra i tralicci. Due anni dopo arrivò il 28mm. Uscii dal negozio con il 28mm innestato guardando attraverso il mirino mentre camminavo e cominciai a barcollare come un ubriaco: non mi sembrava vero di poter guardare attraverso un obiettivo con un angolo di campo così smisurato. In quel periodo, tutti i mei coetanei con la passione per la fotografia – me compreso- avevano cominciato a fotografare in bianco e nero e quasi tutti avevano un ingranditore sopra la lavatrice di mammà. Si fotografava in bainco e nero non perché faceva molto Bresson ma perché i negativi costavano meno sia della negativa colore che della diapositiva e si potevano stampare da sé. Compravamo la pellicola in bobina, bobine da cinquecento chilometri con cui ci fabbricavamo dei rullini oversize da più di quaranta pose, i rullini alla fine erano talmente imbottiti di pellicola da sembrare dei tripli hamburger al formaggio e la pellicola faticava addirittura a uscire dal rullino mentre la armavi per arrivare al fotogramma numero 1. In camera oscura non potevamo permetterci provini più grandi di un francobollo, spesso ci lanciavamo direttamente sulla stampa finale (le gigantografie arrivavano a sfiorare il 18×24 centimetri) che regolarmente venivano troppo scure o troppo chiare e dovevamo convincerci che erano perfette. Nessuno aveva vere macchine fotografiche: le Hasselblad le vedevamo solo durante le dirette degli allunaggi mentre Walter Cronkite commentava in diretta e si levava gli occhiali per la commozione, avevamo appena i soldi sufficienti per comprarci l’Almanacco di Fotografare che imparavamo a memoria, guardando con occhio ancora più attento le pagine di pubblicità dove le fotocamere erano mostrate molto più grandi rispetto ai microscopici santini che accompagnavano le descrizioni delle singole fotocamere nelle varie sezioni. Nikon, Rolleiflex, Leica erano solo sogni a occhi aperti. Una Hasselblad 500/CM con magazzino A12 e Planar 80mm costava più di un milione di Lire in un periodo in cui si andava al cinema con 200 Lire (10 centesimi di Euro).
Di Leica non erano chiari neppure i prezzi a fianco dei santini, veramente troppi zero, ci si cullava nell’idea che forse c’erano stati errori tipografici, le Leica le si vedeva, e raramente, soprattutto in montagna al collo di facoltosi signori, con la borsa pronto a tracolla aperta a mostrare quell’intrico di ghiere, di mirini e finestrelle, da farle sembrare modellini di U Boot. Macchine per pochi, quasi per nessuno, forse bisognava dimostrare di essere stati nella Luftwaffe o nella Kriegsmarine per poterle acquistare. Le Rolleiflex, sempre raramente, era più facile vederle in località di mare, per esempio a Sanremo, -quando Sharm El Sheik la conosceva solo la fauna ittica del Mar Rosso- nuovamente al collo di persone abbienti, vestite di tutto punto in lino chiaro, con il panama e la canna che ondeggiava al polso, intenti a fotografare signore avanti con gli anni che a ferragosto restavano completamente vestite ai tavolini che fiancheggiavano la spiaggia, con tanto di guanti di filo, veletta e ombrello bianco parasole. La passione trascorreva per metà perdendo gli occhi sui santini dell’Almanacco, per metà rimanendo incollati per ore, come gechi intorno a una moschiera, alle vetrine dei negozi di fotografia, le vetrine dell’usato, naturalmente. A Milano in Corso Buenos Aires, c’era Matuella, uno dei negozi più antichi di Milano; piccolo, con due vetrine stondate, capolavoro dell’arte vetraria: bisognava mettersi in coda anche per vedere il materiale esposto in vetrina. In Piazza Venticinque Aprile c’era Artioli: in qualsiasi giorno dell’anno e a qualsiasi ora c’erano sempre almeno quattro compatte file di persona che si assiepavano davanti ai banchi, si poteva aspettare anche un’ora prima di riuscire ad avvicinare un commesso. In Viale Certosa c’era la Unionfotomarket, un vero e proprio trionfo della fotografia: bancali di pellicola e carta fotografica, ogni tipo di accessorio sia per la sala di posa che per la camera oscura e prima dell’uscita un numero di casse da far invidia a un grande centro commerciale dei nostri giorni. C’era anche un negozio che apriva anziché nel pomeriggio del lunedì già la mattina per permettere soprattutto ai professionisti, ma anche agli appassionati, di potersi rifornire di pellicole senza dover attendere il lunedì pomeriggio, dopo l’abbuffata di scatti del fine settimana.
C’era un laboratorio che ai propri clienti dava una chiave che permetteva loro di inserire le pellicole in un apposito “bancomat” anche di notte e molti laboratori processavano le diapositive in E6 di notte, e il sabato, e la domenica. Enormi negatoscopi a disposizione dei clienti e contafili assicurati ai banchi con delle catenelle permettevano ai fotografi di controllare le pellicole appena ritirate. Altri preferivano la tranquillità del proprio abitacolo, usando il cielo attraverso il parabrezza come negatoscopio, passando le diapositive velocemente una via l’altra per farsi un’idea del risultato ottenuto. Fotocamera, in Via Santa Sofia a un passo da Corso di Porta Romana fu il primo negozio che decise di trattare unicamente il materiale usato, tanto da collezione che appunto da uso. Come dimenticare le gigantesche casseforti allineate dietro il banco di vendita, e il sospiro che correva all’unisono tra i clienti ogni volta che uno dei giganteschi sportelli veniva aperto per prendere questo o quest’altro oggetto? Decine, centinaia di Leica M e a vite, plotoni Rolleiflex in file ordinate come la fanteria di Wellington a Waterloo, e poi interi ripiani di Hasselblad, di corpi, di magazzini, di ottiche. Non avevamo bisogno di andare ad Orlando noi, la nostra Disneyland era tra le vetrine dei negozi di fotografia. Noi ci dovevamo contentare, esistevano marchi di fotocamere e di obiettivi ormai dimenticati: Doi, Admiral, Review. E cosa dire dei mitici MTO, i teleobiettivi catadiottrici russi, dalla incredibile focale di 500mm, ma c’erano anche da 1000mm. Era molto facile trovarli a Porta Portese – io solo per questo motivo feci richiesta di trasferimento di residenza a Roma – più difficile da trovare a Milano, anche se in linea d’aria siamo più vicini alla Russia.
Ryuichi Watanabe, il mio ospite di oggi, era già in Italia ma in tutt’altri motivi affaccendato: era venuto in Italia dal Giappone per studiare musica e dal Giappone si era portato la passione per le macchine fotografiche.
Giapponesi! Diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato: tedesche.
Quando lo conobbi mi raccontò tra le varie cose che era nato a Hiroshima. Non era facile per me immaginare che a Hiroshima si poteva anche nascere. Seppi che eravamo coetanei, entrami della classe 1958 – la migliore, naturalmente…!- ,lui è di qualche mese più giovane di me. Già mi aveva colpito la sua passione per le macchine fotografiche tedesche – nemo propheta in patria- io che all’epoca ero appassionato di brand giapponesi e non mi pareva vero di aver conosciuto un mio coetaneo, appassionato di fotografia, nato dove si producevano le fotocamere che amavo di più, ma appassionato di brand tedeschi. Come dargli torto? Le fotocamere sono state inventate in Germania e all’inizio “copiate” dai giapponesi. Ma quando mi raccontò che prediligeva il Kodachrome e che lo mandava a sviluppare in un laboratorio americano la mia curiosità raddoppiò:
– Come, scusa, un laboratorio americano che sviluppa il Kodachrome in Giappone?
– Beh, non proprio, mi rispose, è in una città su un’altra isola qui di fronte.
– Che città?
– Pearl Harbour (!)
Ah, a proposito, oggi è il compleanno di Wata. Auguri, Wata.
Come diceva un vecchio saggio, gli anni, magari anche solo una volta all’anno, è sempre meglio compierli.
Poi siamo diventati tutti grandi, abbiamo cominciato a lavorare, abbiamo messo le mani sulla prima Nikon, o la prima Hasselblad, abbiamo messo insieme il nostro parco ottiche, rigorosamente di focali fisse, in camera oscura i Meopta da controspie dell’est che odoravano di un collante ripugnante sono stati sostituiti dai Durst, sono arrivate le provinatrici Paterson e si stampava in formato 30×40 centimetri, i rullini si compravano in confezioni da cinque e non si bobinava più a mano, si usava la chimica usa e getta e si cambiava lo sviluppo nelle bacinelle dopo ogni sessione di stampa, era arrivato il benessere. Si guardava sempre più avanti, si cominciavano a comprare le 4×5 pollici e si lavorava con la Polapan 55, facendo fuori dieci, a volte venti negativi/positivi a sessione. Rimaneva intatto il mistero dell’immagine latente, si viaggiava per giorni, per settimane, senza sapere assolutamente nulla degli scatti effettuati, sapendo al contempo perfettamente che la media di successo non era più di un fotogramma ogni trentasei ma quasi di trentasei su trentasei, o dodici su dodici. Non è che ci interessasse molto la marca della fotocamera, in quel periodo, sapevamo che c’erano marchi blasonati, ma il nostro obiettivo non era appunto l’obiettivo f/1.2 ma fare fotografie, quindi scattare, sviluppare e soprattutto stampare. E nessuno o pochissimi conoscevano il lavoro e la filosofia di Ansel Adams.La camera oscura era il luogo dove in assoluto passavamo più tempo, intere notti, interi week end, era come una febbre che non scendeva mai, non stancava mai, non annoiava mai. Dopo ogni sessione ti ritrovavi con cinque dieci, o venti stampe, e davvero potevi dire che quella foto l’avevi fatta tu: tu l’avevi scattata, tu avevi sviluppato il negativo, tu avevi realizzato la stampa, sviluppandola a mano. Oppure si scattava in diapositiva per realizzare poi i mitici audiovisivi: la maggior parte di noi avevano un singolo scalcinato proiettore e un registratore a cassetta su cui si incideva la colonna sonora.
I passaggi da una diapositiva all’altra, intervallati da penosi momenti in cui lo schermo cadeva nel buio più assoluto, venivano mandati a memoria, così che quella diapositiva d’effetto cadesse nel momento in cui quella o quell’altra stagione di Vivaldi staccasse con un passaggio significativo e pieno di grande apparente commozione. Sapevamo dell’esistenza dei proiettori Karousel della Kodak, dei caricatori circolari da ottanta (OTTANTA !!!) diapositive, delle centraline che permettevano la dissolvenza incrociata, di raffinatissimi registratori a tre, quattro, quarantaquattro piste, come i Revox, i Teac, ma per noi era lo stesso che immaginarsi proprietari di un piccolo jet. Erano i tempi dei “vorrei ma non posso ma in qualche modo la faccio stesso”, io in quel periodo comprai i famosi proiettori Silma: due proiettori che si sormontavano e incorporavano un registratore che consentiva la registrazione dell’audio – in mono – e degli impulsi per il passaggio da una diapositiva all’altra. Fantastico! Insomma… Oltre al fatto che l’audio era mono, la durata della dissolvenza doveva essere decisa prima della proiezione e rimaneva immutabile fino alla fine. E’ come guardare un film in 3D con audio a ventisette canali coprendosi con una mano un occhio e tappandosi con l’altra un orecchio…
Poi è arrivato l’autofocus e improvvisamente tutte le fotocamere sono diventate di plastica. Cosa c’entra la plastica con una feature allora fantascientifica come l’autofocus è una cosa che nessuno di noi ha mai capito. Quello che è sotto gli occhi di tutti, oggi, è il fatto che una vecchia reflex autofocus in plastica, anche se all’epoca era stata presentata come una flagship, oggi spesso vale meno di una vecchia Nikon FE manual focus degli anni 80, fatta però “de fero”.
Arrivò il fenomeno Minox: tutti finalmente cominciarono a girare con questa microscopica fotocamera poco più spessa del rullino 24×36 in tasca. La qualità ottica era incredibile, ma la messa a fuoco a stima e la macchina era di una delicatezza e di una fragilità pari a un flute in cristallo di Boemia trasportata nella sacca degli attrezzi di un idraulico. L’esposimetro tendeva a sottoesporre mostruosamente le immagini e si poteva lavorare solo in priorità di diaframmi; il trucco era quello di scattare con la fotocamera rovesciata, così che il ponticello che andava poi a riparare l’obiettivo fungeva da paraluce impedendo all’esposimetro di vedere il cielo e sottoesporre i negativi
Poi sono arrivate le digitali. Le prime, con una risoluzione inferiore al videocitofono di casa vostra, costavano cinquanta milioni di lire e ci volevano anche cento milioni per avere un dorso digitale professionale. Sì, le prime fotocamere digitali sono state le macchine fotografiche più costose dell’intera storia della fotografia. I file erano quasi ingestibili, i colori psichedelici ma nonostante questo, e i prezzi, si vendevano. Le prime compatte, sempre in risoluzione VGA costavano “appena” due o tre milioni delle vecchie Lire. E poi e poi e poi, eccoci qui.
Oggi le macchine digitali danno risultati superlativi, sono indubbiamente i sistemi più precisi della storia della fotografia e il rapporto qualità/prezzo/prestazioni, se pensiamo alle prime reflex da 50 milioni di Lire, è incredibilmente vantaggioso. Naturalmente, poi, ci sono anche gli smartphone: poche centinaia di euro per avere una qualità che le prime reflex digitali da 25.000 Euro neppure si potevano immaginare. Se mi piace il digitale, ovvero gli smartphone e le macchine digitali? No, non mi piacciono, ma mi servono e fanno esattamente quello che ho in mente. Ma, sapete, quello per me non è fotografare, è un osservare le cose permettendomi di condividere le mie visioni, i miei sguardi con gli altri. La fotografia per me rimane ancora oggi un’altra cosa. Dovete comprendere: sono nato più di mezzo secolo fa e per quarant’anni ho masticato solo pellicola, non per piaggeria, ma perché quella e solo quella esisteva. Se passo davanti a una vetrina di materiale fotografico usato salto a piè pari la zona digitale e mi concentro, di nuovo mi blocco come un geco di fronte alle macchine aa pellicola. La cosa incredibile è che non sono più prodotte da almeno dieci anni e molti modelli hanno cinquanta, o anche cento anni di storia e di uso sulle spalle, eppure sono ancora reperibili, spesso in ottime condizioni e naturalmente perfettamente funzionati – dopo aver loro aggiornato il firmware, naturalmente …
Ancora oggi, credetemi, quando carico una mia vecchia macchina fotografica con un rullo -non da me bobinato…- di pellicola, naturalmente in bianco e nero, ecco, solo in quel momento, dopo ogni scatto, sento di aver fatto una fotografia, una cosa che probabilmente rimarrà, ma soprattutto una cosa compiuta, bella, mediocre o brutta che sia.
Perché, come disse il grande e compianto Giorgio Faletti nel film “Notte prima degli esami”:
– Vedi Molinari, (Luca), l’importante non è quello che trovi alla fine di una corsa, l’importante è quello che provi mentre corri.
Milano, 23 luglio 2014
Ho ancora la mia Kodak Instamatic che mi era stata regalata per il mio compleanno (avevo 9 anni); con quella macchinetta “in barba alla privacy (allora il mondo era meno paranoico e nessuno si faceva problemi)” avevo scattato le foto ai miei compagni delle elementari, il mio primo tour in Spagna con una roulotte (insieme ai miei genitori), Roma e Pompei, Pozzuoli e la sua solfatara, ed anche la splendida Villa Carlotta a Tremezzo. Non è mancato un “servizio di matrimonio” (di un mio caro parente) e nemmeno un tuffo in piscina preso come “istante decisivo”). Pochi anni d’anni fa ci ho caricato un rullino (o per meglio dire quello strano scatolotto rullino-bobina ricevitore) scaduto da anni, e ci ho scattato delle foto del pattinaggio su ghiaccio sulla pista natalizia di Como. Sviluppato e scansionato presso il mio negozio di fiducia a Como, nonostante i folli colori alterati, mi ha dato la grande soddisfazione di far rivivere questa macchinetta circa quarant’anni dopo!