Oggi sono nuovamente tornato a Katong, il quartiere di Singapore attraversato dalla Joo Chiat Road che da Geylang porta giù verso la East Coast e il mare.
Mi piace, ha un sapore di realtà, con le sue shophouse che contornano la strada e un’economia di negozi, caffetterie, ristoranti in equilibrio tra passato e presente, senza storture. I portici, con gradini assassini, mi proteggono la pelata da un sole che oggi picchia, convinto di dover fare fino in fondo il suo lavoro qui all’Equatore.
Ho deciso dì immolarmi il fegato nel tempio della frittura Vadai, che tanto mi ricordano i frisceu Genovesi: pastella che viene battezzata nell’olio bollente, dopo essere stata mescolata a qualsiasi cosa – vegetale o animale – cresca o si muova con un numero variabile dalle 2 alle mille zampe.
Le prime tracce storiche dei vadai, usato diffusamente ancora oggi in India e Pakistan come snack, risalgono all’anno 100aC. In un libro di ricette Tamil se ne descrive la preparazione: una pastella di farina, nella quale vengono immerse verdure, pesce o pollo, insaporita con vari ingredienti e spezie, e rinforzata con un po’ di foglie di curry e del temibile peperoncino verde che oggi mi ha massacrato palato e labbra.
Ho ordinato 3 frittelle coi gamberi (la specialità che fa formare lunghe code davanti alla friggitoria), due alle cipolle, due alle acciughe, e un’ assortimento vegetale, evitando quelle con organi di pollo che non mi vedono ancora completamente pronto all’esperienza mistica.
Negli spazi dietro il banco, tra rumore della l’olio che bolle, e il fumo che sparge i sapori, si muovono cinque persone, con una precisione che farebbe alzare il sopracciglio ai due fratelli McDonald, inventori della catena ottimizzata di produzione del fast food. Altre tre sono fuori, a respirare la sana aria del fumo delle loro sigarette, e danno poi il cambio alla brigata di cucina: non capisco come non facciano a ustionarsi costantemente.
“Mau, your vadai is ready”, e mi consegnano i cartocci. Costo: $6 di Singapore, poco meno di 4 euro. Sono l’unico occidentale tra la ventina di clienti che costantemente si accodano tra l’ordine e il ritiro del cibo, tutto fritto al momento. Si aspetta meno di dieci minuti.
Al prezzo di una bottiglia dì Tiger, la tradizionale lager di Singapore, mi guadagno il diritto a usare uno dei tavoli della caffetteria a fianco. Comincio ad addentare i vadai ai gamberi, guardandomi bene dall’aggiungere i temibili peperoncini verdi che gli altri avventori apprezzano per la loro piccanza: ho ancora i ricordi di una serata a Bangalore dove ho commesso l’errore di voler emulare i locali, scoprendo che questa gente riesce tranquillamente a masticare il napalm.
Ho capito perchè il posto attrae tanti clienti: sono deliziosi.
Passo a quelli alle acciughe: sembra di essere in qualche posto della Genova Vecchia, il sapore mi fa venire nostalgia di casa. I vadai alla cipolla sono fantastici, ma traditori: dopo un’iniziale sapore quasi dolce, dato dalla cipolla rossa diffusissima in India, la fiamma mi passa dalla bocca alla lingua, per scendere fino in gola e a poco servono le Bollate di birra gelida che tento di usare per spegnere l’incendio.
Tento di pulire le dita prima sulla carta, poi direttamente sui polpacci, per cercare di prendere in mano una delle due Signore Tedesche a Telemetro che oggi mi accompagnano, e alla fine il risultato è quasi accettabile. Scatto una dozzina di immagini, e con il telefono un video della calma nella quale la cucina è immersa.
Bello, viene voglia di venire 🙂