Telok Ayer, Chinatown 牛车水

Sir Stamford Raffles, tra il 1819 e il 1832, delineò e implementò lo schema urbano per lo sviluppo di Singapore, identificando non solo le aree di destinazione abitativa, quelle commerciali e amministrative, ma disegnando anche specifiche divisioni per le etnie che popolavano l’isola. 

La European Town tra il fiume e Fort Canning Hill era destinata ai principali edifici pubblici, alle residenze degli Europei, e a quelle delle classi Asiatiche più agiate, mentre la zona a sud del Singapore River era il Kampong Chinese. Alla comunità Indiana vennero assegnati gli spazi di Chulia Kampong, più a nord, dove oggi troviamo Little India. Leggermente più a sud, a Kampong Glam, si insediarono i Mussulmani di etnia Malay e Araba, in quello oggi possiamo vedere essere il quartiere di Bugis.

Ancora oggi è visibile, nella Singapore moderna, buona parte di queste predominanze etiche, culturali e culinarie, e anche se meno, architettoniche: un lavoro di preservazione attenta e di recupero è stato fatto, a partire da alcuni decenni, e i quartieri oggi rappresentano un’ interessantissima occasione per delle lunghe passeggiate.

 

 

Introduzione necessaria per dirvi che oggi ho portato la Signora Tedesca a Telemetro a Telok Ayer, “Baia d’Acqua” in lingua Malay, la prima delle sub-aree che hanno caratterizzato nel 1820 lo sviluppo di China Town.

Uscito dalla Down Town lane, dopo poche centinaia di metri, a destra, troviamo Thian Hock Keng, “Il Palazzo Della Felicità Celestiale”, un tempio dedicato a Manu, uno degli Dei del Mare che popolano la agiografia Buddista Chinese, con la quale, lo confesso, la mia conoscenza va poco oltre il minimo indispensabile per le Parole Crociate a Schema Libero del mitico Bartezzaghi.  

Dietro la protezione delle Sentinelle Divine all’ingresso, leoni in pietra egli dei delle porte, l’architettura degli interni, con i suoi iintarsi simbolici augurano al fedele ogni bene, tra i quali fortuna, salute, immortalità: poco l’impatto per il mio ateismo dialettico, ma comunque ho apprezzato il senso.

Proseguendo Telok Ayer St., mi sono fermato nel Caffè Franco-Chinese di “Franc”, un paio di spalle da nuotatore che, dopo una carriera nel management alberghiero, ha deciso di aprire un posto suo, in quella che era la Chung Hwa Free Clinic.

 

 

Nel 1952, un gruppo di medici volontari della Singapore Chinese Physicians Association aprì questa clinica per supportare le fasce di popolazione meno più povere. I giornali dell’epoca testimoniano quotidiane lunghe code di pazienti, di ogni etnia, in una regione dove malaria, tubercolosi, tifo e malnutrizione colpivano i residenti dell’isola, oggi eccellenza mondiale di igiene e assistenza medica.

Finanziata inizialmente dalla comunità Chinese di origine Cantonese, la clinica fu nominata a uno dei maggiori donatori, l’associazione-clan Zhong Sian Hui Guan ($20,000 dollari dell’epoca, una piccola fortuna). Nel 1961 una seconda clinica fu aperta a Serangoon, seguita poi da una terza, nel 1967, a Geyland. Un’ulteriore apertura, nel 1978 a Toa Payoh, completa un’assistenza tutt’ora attiva.

Il “My Awsome Cafè” adesso occupa il piano all’altezza della strada, ma una scala interna rende anche quello superiore agibile. L’arredo è un mix tra architettura industriale, lanterne Chinesi e Preghiere Buddiste: una cornucopia di colori, che nella scarsa luce delle ore prima dell’apertura, fa felice il SuperAngulon che spesso mi sta accompagnando sulla Leica M10R.

Franc mi dice, con orgoglio, che l’affitto che paga va a contribuire all’assistenza sanitaria di Singapore per i più bisognosi, e questo me lo rende – insieme ai suoi modi schietti – simpatico: devo venire una sera qui a scattare qualche ricordo con gli occhi, bevendomi una birra fresca, brindando alla vita, che è una cosa bellissima. 

 

 

La pelata comincia a grondare sudore mentre mi inerpico tra le stradine, quasi deserte la domenica mattina, e la maglietta diventa una seconda pelle, a ricordo del lungo acquazzone di ieri, che ha lasciato un’umidità palpabile.Alcune caffetterie sono prese d’assalto dai ciclisti che riescono a recuperate le calorie perse a botte di uova in camicia su toast coperti da tsunami di salsa hollandaise (che forse si scrive in modo diverso, ma la mia lotta col correttore ortografico, impostato sull’inglese, mi ha sfinito).

Scendo per Tg Pagar Road, entrando in Kreda Ayer, la seconda area – sviluppata nel 1830 – destinata dal Raffles Plan alla comunità Chinese, fino al Tempio del Dente di Buddha, per entrare nel Chinatown Complex Food Center, e più specificatamente nel wet-market del piano inferiore.

Ho perso il conto dei mercati in Asia nei quali sono stato: penso, in questi 45 anni di nomadismo planetario, di averne visitati oltre 250, ma conservo sempre il piacere di osservare l’umanità che scambia merci alimentari con titoli di credito, in una bolgia ordinata che fa da trama e ordito all’alimentazione della popolazione dell’area.   

 

 

Il nome “wet market” (“mercato bagnato”) indica la vendita di carni fresche, pesce, frutta e verdura, e altri generi deperibili, distinto dal “dry market” che tratta beni che non necessitano una refrigerazione, come tessuti, pentolame, elettronica. La divisione merceologica applica logiche talvolta non totalmente lineari, ma un minimo di tolleranza è d’obbligo se si vuole girare il mondo.

Spesso in Asia, soprattutto in China, animali vivi vengono esposti per poi essere macellati su richiesta: mi pare di averlo raccontato in alcuni dei miei post su Vitavissuta.com, e vi invito a dargli un’occhiata, visti gli oltre 1,500 articoli che ho scritto negli anni su quella piattaforma.

Il Chinatown Complex è quieto stamani, domenica mattina, e le dimensioni delle mie spalle non fanno particolari danni nei corridoi degli stalli, dove una moltitudine ordinata di umanità emette il sommesso brusio che accompagna domanda e offerta. Recupero una bottiglia d’acqua ed esco verso Trengganu St., dove l’assenza di turisti per le restrizioni Covid hanno dato un colpo al commercio di chincaglieria della strada.

 

 

La domenica mattina è la giornata dei pittori. Totalmente integrati, spesso ignorati come se fossero decoro urbano, alla stregua di panchine o fontanelle, realizzano i loro disegni, interpretando la realtà, e tollerando un grosso italiano con appesa al collo una Signora Tedesca a Telemetro, che per l’occasione ha indossato uno dei suoi vetri più belli, il Summa-Cum-Lux 50mm.

Incontro altri adepti della mia stessa passione, un paio di loro con Leica al collo, ma trattate con una deferenza come fossero reliquie: non mi sorprenderebbe di vederne uno anche con un ombrellino per ripararle dal sole. Tentano di coinvolgermi in una diatriba tecnica su modelli, ottiche, sensori e prezzi, e mi guardano con una certa diffidenza quando dico loro che la macchina fotografica è una compagna quotidiana di vita e di ricordo. Ha una personalità, se non un’anima, e deve vivere il tuo stesso quotidiano, per poterti aiutare a raccontare giornate come questa.

 

 

 

 

 

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