È stato un Vicentino, Antonio Pigafetta, che ha fatto conoscere al nostro mondo moderno, per la prima volta, il combattimento tra galli praticato in Asia. Vissuto a cavallo tra le fine del 1400 e la prima metà del 1500, Pigafetta fu uno dei 18 superstiti della spedizione di Magellano ad aver compiuto per la prima volta la circumnavigazione del globo.
Ebbe la privilegiata posizione di essere l’assistente dell’ esploratore, addetto a tenere il giornale di bordo, e quindi attraverso il suo manoscritto “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” che circolò nelle corti d’Europa dal 1525 in poi.
Tra le cose che ci ha raccontato sul regno di Taytay (a Palawan, nelle attuali Filippine), c’è la pratica del combattimento tra galli, e la definisco “pratica” con gli occhi di chi – oggi girovagando per l’Asia – deve riconoscere un qualcosa che è un misto tra tradizione religiosa, occasione per un giro di scommesse nelle aree rurali, e sport sanguinario visto che almeno uno, se non entrambi gli animali, devono morire sanguinando per dichiarare chiuso il combattimento.
Anche se il Pigafetta ci è venuto a raccontare cosa succedesse nelle isole dell’Oceano Pacifico, traccie del combattimento tra galli sono presenti da millenni in India, Cina e Persia: nel periodo di Themistocles (524-460 AC) si vede anche la sua comparsa in Grecia, e i Romani la importarono nelle aree rurali, come ci racconta Columella (I Sec. AC) di contadini rovinati dallo scommettere sui galli.
Quindi (e cominciare con un avverbio così l’inizio di una frase è da criminale) mi sentivo un po’ su una della navi di Magellano quando ieri Mully, il mio Caronte locale qui a Bali, ha inchiodato il suo Bufalo da Trasporto Nissan quando ha visto una nuvola di motorini parcheggiati in uno slargo della giungla.
Mi ha guidato in un sentiero nella boscaglia che porta a un largo ring in terra battuta, coperto da ondulati in plastica, attorniato da scommettitori e tifosi urlanti nel rito sociale che precede il combattimento tra due pennuti eccitati alla lotta come dei posseduti.
I proprietari del gallo ne celebrano le doti assassine esponendoli orgogliosi, gonfiando muscoli e tonsille dell’ umano in simbiosi con quelle dell’aviario, in una bolgia vocale che ha pari solo nella Main Station di Calcutta (e se non ci siete stati, evitate, credetemi sulla parola).
“Balisque Musae, paulo majora, avium pugnante canamus” avrebbe detto Virgilio, se i miei ricordi di latino possono farmi esporre alla censura: i due pennuti vengono ingrifati (e non penso sia un verbo italiano) l’uno davanti all’altro, strappando loro le penne del collo per stimolare una loro già naturale aggressività verso un esemplare maschio della stessa specie, mentre il caos attorno regna sovrano.
Qui si dice che il combattimento ha un significato religioso, con il sangue a terra che deve nutrire gli spiriti maligni, e la catarsi nel combattimento animale simula la battaglia tra bene e male che, dal Paradiso Terrestre alle Upamishad, ha sempre attraversato il cammino dell’umanità.
Si dice anche, forse più realisticamente, che i Balinesi sono pazzi per le scommesse, e dar loro un qualcosa sul quale puntare, in un ambito di tollerata illegalità (il combattimento tra galli è vietato da una trentina d’anni almeno), li tiene lontani dal giocarsi anche i testicoli su qualcosa di più coinvolgente.
Nel casino del ring, tra i canti di guerra dei due galli che si stanno dissanguando, e di quelli che sono al bordo in una cesta o una borsa chiusa per essere abituati al rumore e all’eccitazione, tre le urla degli scommettitori, ho fatto scattare l’otturatore della Leica una quindicina di volte.
Poi la mattanza è finita con entrambi gli uccelli a terra. Si, una cosa crudele, anche se l’ho vista praticata tra umani in alcuni angoli d’Africa nel mio vagabondare planetario, e tra le due situazioni, penso i pennuti siano il minore dei mali.
I proprietari hanno tentato di rianimare entrambi, sostenendo il collo e strizzando il posteriore in una sorta di manovra di rianimazione, fino a quando entrambi sono stati messi sotto una campana di vimini dall’arbitro. Dopo pochi secondi di immobilità reciproca, il pareggio è stato decretato, e i galli si sono avviati a diventare spiedini sulla brace che, con intelligenza commerciale, ri trova vicino al ring, mentre il passaggio di banconote sanciva la chiusura delle scommesse su questo incontro, e il pagamento delle vincite a danno di chi ha perso.
Una canzone comincia a suonarmi tra le orecchie, solito mistero delle mia confuse associazioni di ricordi, letture, immagini e ascolti negli angoli del pianeta che mi ha ospitato durante gli ultimi oltre 60 anni.
I am the little red rooster, too lazy to crow ‘fore day
Keep everything in the farm yard upset in every way
The dogs begin to bark and hounds begin to howl
Watch out strange kin people, little red rooster is on the prowl
If you see my little red rooster, please drive him home
Ain’t had no peace in the farm yard since my little red rooster’s been gone.
I Rolling Stones, ancora infarciti di blues, nei 1965 registravano Little Red Rooster, ed è il suono che mi viene in mente nei minuti di pausa che precedono un altra battaglia. Non starò qui a guardarla, mi è bastato quello che ho visto adesso.
Sono a Bali per qualche giorno e ho un programma pieno per riuscire a vedere le cose che i turisti normalmente ignorano: restate collegati su NocSensei, e vi accompagno tra mercati, risaie, templi e vulcani, con al collo una Leica e – sorpresa – una Contax G2 che di recente è venuta in Asia a farmi compagnia.
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