Sono molti anni che non tornavo a Soweto, uno dei tanti posti in Africa dove una demografia incerta piazza intorno al paio di milioni il numero di persone che brulicano in questa parte a ovest di Johannesburg, a fronte delle aggiunte di arrivi da Zimbabwe e Mozambique, che sfuggono al censo, e spesso anche alla polizia.
Il mio Caronte si fa chiamare Fresh: quando gli chiedo se sia il suo vero nome, visto che l’accento lo piazza invece nella lingua Tzvana, mi racconta la storia di sua madre, mescolando però l’inglese gergale con un brodo di parole dialettali, tanto che alla fine il mio “Ah, I got it now” è una risposta più di cortesia che di comprensione.
Gli chiedo di evitare la parte di insediamenti più recenti, come anche l’area storica dell’Hector Pieterson Museum, che sorge a memoria degli scontri dove il quattordicenne fu ucciso dalla polizia, il 16 Giugno 1976, durante le proteste contro l’imposizione dell’insegnamento dell’Afrikaans (andatevi a vedere lo scatto di Sam Nzima che lo documenta). Lascio anche perdere la casa di Mandela, con lo zoo di bancarelle e performer che normalmente si sviluppa intorno. Voglio solo andare negli “informal settlements” come adesso vengono definiti, in modo politicamente corretto, quello che una volta era chiamato con disprezzo “squat camp”.
Fresh abbaia nel suo telefono una serie di frasi nelle quali non colgo nemmeno la punteggiatura, e poi mi dice “ho la persona che può accompagnarti”. Gli rispondo che ho già qualcuno che mi accompagna, una nuova Signora Tedesca Q2, ma la discussione ingenera una serie di equivoci che scivolano dal fotografico al pornografico, e lo lascio ridacchiare su quelle che lui pensa siano le abitudini di accoppiarmi con una macchina fotografica.
Si ferma sul ciglio della strada, e mi consegna ad un’invasato, che gesticola come Mike Jagger dei tempi migliori. Mi ripete tre volte il suo nome, e io tento di rispondergli, dando un senso fonetico compiuto al groviglio di consonanti che dovrebbe corrispondere alla sua pronuncia, ma poi rinuncio e gli chiedo se sia ok se lo io chiami James Brown. Ci accordiamo e cominciamo a scendere tra le baracche di lamiera ondulata che costituiscono l’infrastruttura abitativa in buona parte d’Africa.
James Brown mi parla della capillare distribuzione elettrica (gli agganci volanti ai pali della luce), e dell’attenta fornitura idrica (un grappolo di rubinetti dove la gente arriva con le taniche). Mi declina le regole che attraversano questo posto, e mentre parla io scatto molte immagini con gli occhi, e come al solito solo poche con la macchina fotografica.
Mi faccio strada tra le reti metalliche che separano le intimità, passo vicino a bucati stesi, in un silenzio che da contrasto. Le persone mi passano a fianco come se non esistessi, malgrado che il colore della mia pelle risalti come un’evidenziatore su un foglio bianco. James Brown si infervora nello descrivermi cosa vedo, e nell’aggiungere che comunque l’ordine regna sul caos, e le baracche seguono un’urbanistica sensata, portando a prova la numerazione dipinta sulla lamiera.
Le ombre si allungano, e io comincio ad essere all’interno delle immagini.
Tempo di un bicchiere a Chaf Pozi, sotto le due torri della vecchia centrale elettrica di Orlando, adesso usate come cartelloni pubblicitari. Incontro uno sciame di ragazze afro-americane, in pellegrinaggio culturale: stanno negoziando in grappolo l’acquisto di un paio di collane di arte povera (e qui la definizione ha un vero senso). Le aiuto riportandole sulla realtà di un cambio tra il Rand e il Dollaro, che fa loro capire potrebbero permettersi anche tutto il negozio.
Faccio saltare il tappo ad una bottiglia di Soweto Gold, la birra prodotta proprio qui, e alzo gli occhi al cielo per poterne ingollare una sorsata: i colori dell’Africa ti entrano addosso, e il tramonto ti satura la retina prima, e poi la mente, stampando l’istantanea di un ricordo, forse una tristezza, che non mi lascerà mai più.
Foto? Soweto in Leica Q2.
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