Sling

Venerdì pomeriggio. Dopo 3 giorni nei quali la distanza massima che ho percorso è stata quella per arrivare alla macchina del caffè, sento il bisogno di camminare all’aperto, e l’aria di Singapore mi accoglie con un clima ragionevolmente fresco, quando esco dalla MRT alla fermata di Aljumied, sulla East West line.

Mi ritrovo su un percorso che mi è diventato classico, partendo dai Lor di Geylang, le strade a spina di pesce con ancora qualche traccia del periodo coloniale, passando poi per Kallang, Little India, e poi tra le bancarelle di Bugis. Tengo per mano la Signora Tedesca a Telemetro, con un vetro 28 col quale tento di vedere un po’ oltre gli orizzonti del 35, che rappresentano la mia realtà.

Il mantra ritmato dei monaci sostituisce la voce di Tracy Chapman che avevo nelle orecchie, proprio quando mi stava cantando “I’m free from your spell” sulle note della chitarra del King, mentre il fumo dell’incenso mi entra gentilmente nelle narici. Centinaia di candele votive accompagnano il silenzioso rito, un inchino a mani giunte davanti al volto, con il quale i passanti dedicano qualche minuto al loro dio.

L’ho già detto, Geylang sta cambiando velocemente, e tra poco i miei ricordi, piazzati ai primi degli anni ‘80, sapranno di archeologia: il tarlo dell’efficienza abitativa sta consumando i vecchi spazi in efficienti condomini, e le ultime tracce di una strada divisa tra i due piaceri del cibo e della carne saranno solo una lettura del passato.

La luce poi vira, dal colore del sole a quello del neon.

Bugis Street mi pare meno confusa del solito: non fa eccezione nemmeno il caleidoscopio mercato, dove una volta chiusi gli occhi potresti riaprirli esattamente nello stesso contesto a Seoul, o a Shanghai, tanto per mantenere almeno la prima consonante costante. I vecchi che pedalavano sui rickshaw hanno passato la sella a nuove generazioni, e i loro muscoli a motori elettrici che lasciano i pedali a puro orpello turistico: me ne son passati davanti un paio che filavano come nemmeno quelli del Giro d’Italia riescono a fare.

Mi fermo per un pellegrinaggio nel tempio dello Sling, dove oltre 100 anni fa Ngiam Tong Boon aveva cominciato a servire il cocktail a base di gin che ha reso famoso il Long Bar del Raffles. Stesso tappeto di bucce d’arachidi per terra, stessa torma di turisti che devono timbrare il “ci sono stato”, stesso servizio spento e svogliato, stessa mistura ormai prodotta ad ettolitri. Ho sempre preferito il bar del giardino, ma da ormai due anni il Raffles è chiuso per una poderosa ristrutturazione, che dovrebbe restituire le sue 109 camere ai clienti tra qualche mese.

Tempo di tornare nell’ostello che mi ospita stanotte: domattina mi chiudo in un sigaro volante per una manciata di ore e torno (per 36 ore) a casa, nel Paese dei Castelli di Sabbia, per poi rimbalzare tra Istanbul e Johannesburg, in una rotta coerente come quella di una pallina da ping pong dentro un tornado.

Fortuna che la Signora Tedesca a Telemetro  tiene traccia della mia vita.

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