Ieri ero in ascensore, nel percorso che mi porta al 36esimo piano, quasi in cima al grattacielo che mi ospita in questa ultima settimana qui a Singapore. A metà strada è entrata una mamma, con due bambini, due gemelli, probabilmente di 4 anni.
Ho visto subito la curiosità del maschietto, che, indicandomi con un dito, non si è trattenuto dal dire “Mama, ni kan, ni kan” (“Mamma, guarda, guarda!” In Chinese), ma anche la bambina, stringendosi alla madre, in modo più silenzioso, mi ha guardato incuriosita, aggiungendo sottovoce qualcosa dove ho solo colto “Qiguai” (“strano”).
La madre li ha ripresi, provabilmente dicendo loro che non è educato indicare le persone, nè essere sorpresi, e poi si è scusata con me, in Inglese: “They have never seen a western person in their life. They had never traveled abroad yet”, non sono mai stati all’estero, fuori dalla China.
Ho già provato la sensazione di sentirmi “diverso”: quando quasi 25 anni fa giravo per Riyadh, in Arabia Saudita, ed ero l’unico a indossare un paio di pantaloni e una camicia, mentre la totalità delle altre persone intorno a me vestivano l’abito tradizionale bianco, lungo fino alle caviglie. Ancora spesso in Africa, a Johannesburg, Maputo, Luanda, Kampala, ma soprattutto a Lagos dove l’espressione “essere una mosca bianca” mi rendeva piena giustizia, visto che il colore della mia carnagione era identificabile in una marea nera.
In Asia questa differenza non è così marcata, se non per le dimensioni del mio fisico, che mal si conciliano con l’ antropometria che guida gli spazi nelle sedute dei mezzi pubblici, visto che le mie spalle occupano, sia sui bus che in metro, un posto e mezzo abbondanti. Si, c’è una sensazione di diversità, ma mai di discriminazione, nemmeno quando picchio delle zuccate per l’altezza dei sostegni o quando il mio piede non ci sta, e traborda negli scalini di tutta la città.
Diverso percepire la discriminazione, che, citando chi me l’ha raccontato, ti brucia addosso, in un senso di annientamento. Ricordiamoci sempre di accettare la diversità come normalità, e di aborrire la discriminazione, rifiutandola e combattendola. Bello riascoltare una fantastica poesia/canzone di Bob Marley [1976]:
Until the philosophy which hold one race, Superior and another inferior
Is finally And permanently Discredited And abandoned
Everywhere is war Me say war
That until there are no longer First-class and second-class citizens of any nation
Until the colour of a man’s skin Is of no more significance than the colour of his eyes
Me say war
That until the basic human rights Are equally guaranteed to all Without regard to race
Dis a war
Scatti di questi ultimi giorni a Singapore, dove sto passando a salutare tutti quelli che ho conosciuto in questi ultimi quattro anni di vita qui. Tra un paio di settimane sono a spasso per la China, in compagnia di una Signora Tedesca a Telemetro. Stay tuned!
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