Malgrado siano già le 18:30 il sole picchia ancora, e mi regala, complice l’umidità, la sensazione di essere una fontana del Bernini, tanto i pori sprizzano sudore. Tengo per mano un’amica, la Signora Tedesca a Telemetro: oggi la M10, che indossa il suo vestito preferito, una lente Summa-Cum-Lux 35mm.

Da Febbraio a oggi non ci siamo mai concessi una passeggiata assieme. Oggi, avendo la pazienza di aspettare che la condensa sparisca dal suo occhio, la porto a fare qualche scatto che non siano i miei soliti breakfast, che saranno pur salutari e colorati, ma diciamocelo, come foto son delle gran rotture di coglioni.

Siamo a Deira, il vecchio centro commerciale di Dubai, prima che lo sviluppo lungo la Sheikh Zayed creasse un nuovo polo alternativo, lasciando però ancora una miriade di piccole attività che, complice anche la vicinanza dell’Iran e il facile trasporto delle merci dal molo d’imbarco che corre lungo la Baniyas Rd., continua ad alimentare se stesso in una contraddizione economica, dove la concentrazione vince le leggi di concorrenza e quote di mercato

Deira è un posto di uomini. Soprattutto di origine Pakistana, nel crogiolo di etnie tribali, che fanno nella sponda opposta dello stretto di Hormuz, un’ ossimoro di governabilità nell’intricata matassa di relazioni e diritti spesso sanciti più dalle carabine che dalle leggi. Ovunque uomini, con il loro vestito Pashtun, la casacca lunga che nasconde parzialmente un paio di pantaloni larghi, e il paiolo, il tradizionale cappello, appoggiato sul capo.

Entro sotto il riparo dell’Old Souk, cominciando a camminare tra i negozi con pile di spezie accatastate, il naso percepisce gli odori: un sottile fumo di incenso rimane fermo nell’aria, immobile anche lui a cercare il minimo refrigerio che l’ombra ci regala. Poca gente in giro: i turisti devono ancora riapparire, malgrado i giornali locali abbiano dato risalto ai pochi che stavano scendendo dall’aereo dopo che il primo volo con l’Ukraina ha ristabilito i collegamenti, accettando di non mettere in quarantena chi porti l’esito negativo di un tampone fatto a casa propria.

La pandemia ha anche spazzato via un bel po’ di posti di lavoro qui, soprattutto nelle fasce di chi percepisce pochi dollari al giorno, e i voli di rimpatrio proseguono nel rispedire a casa chi non si può permettere di rimanere senza un visto che, attraverso il lavoro, certifichi il permesso alla residenza. Questa parte di mondo, lontana dai quartieri del lusso, ne sente il colpo.

Attraverso il Creek sulla barca che, al costo di 1 Dihram (25 centesimi), mi porta sulla sponda di Bur Dubai, nel Souk dei Tessuti. Mi fermo, da oltre 25 anni, sempre nello stesso posto per una spremuta d’arancia: poco è cambiato in questo quarto di secolo, di sicuro non lo spremi-agrumi manuale che aiuta a restituirmi la minima parte dei liquidi persi durante l’ultima ora di cammino.

Il sole si tuffa nel misto tra sabbia, umido e notte che qui definiamo tramonto. Le luci dei negozi cominciano a violentare la taratura del bianco della retina, e la Signora Tedesca a Telemetro mi si imbizzarrisce quando tento di tracciare il ricordo di un adesso, con la camicia diventata una seconda pelle.

Tempo di tornare in quella che qui chiamo “casa”.

 

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