Oggi l’ho fatto ancora una volta, sono tornato sul Creek di Dubai, saltellando tra la sponda di Deira e quello di Bur Dubai. Mi capita di venire qui ogni volta che abbia il desiderio di un minimo di realismo, sensazione talvolta rara nel Paese dei Castelli di Sabbia, e come un novello, obeso e pelato, Giovanni Verga, mi immergo temporaneamente in una sorta di Aci Trezza locale.

Ho raccattato la Q2 a farmi compagnia, una Leica da puro divertimento, con la quale, per riuscire a sbagliare uno scatto, bisogna veramente impegnarsi a fondo.

Dopo anni di bestemmie nei vicoli di Deira per riuscire  parcheggiare la macchina, cercando un posto dove si apra anche completamente la portiere sinistra, per uscire con un minimo di dignità dall’auto, ho finalmente imparato a mollare la bestia a Banyas. Il trucco e’ poi quello di prendere il battello che mi scarica davanti all’Old Souq, percorrendo la tratta più lunga nel groviglio del traffico di barconi, che alimentano la transumanza di umanità al prezzo di 2 dirhams (50 centesimi d’euro) la tratta.

 

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Questa area della città prende vita soprattutto la sera, e durante il Venerdì: le caffetterie offrono pietanze dai costi contenuti (con un paio d’euro mangi), e i sapori offrono una fusione che parte dalle montagne del Pakistan, fino ad arrivare al Kerala indiano, superarlo e scendere ancora nei profumi della cucina dello Sri Lanka.

La linga qui è un misto, dove arabo, hindi, dialetti e inglese speziato, compongono un brodo di comunicazione dove più che comprendere, si fa surf sulle frasi, tentando di dare una direzione al dialogo, magari aspettando l’onda di sillabe successiva.

Il posto è estremamente sicuro e pulito: le regole di Dubai non fanno alcuna eccezione nemmeno in questa enclave realistica: anche gli approcci dei negozianti sono garbati, mentre ti propongono keffiyeh (il tradizionale velo arabo a scacchi), pashmina, spezie e incenso, e quant’altro possa attrarre la transazione economica a loro favore.

 

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Metre mi muovevo tra i vicolo dell’Old Souq, mi son fermato da Muhammad, il cui cognome segna la sua provenienza Omanita: vende delle porcellane turche dai colori spettacolari, e gli ho promesso di tornare per raccattarne una dozzina da portare in Italia e regalare agli amici in crisi cromatica.

Sono poi arrivato nel dedalo dell’enclave induista: dove ci sono tre templi dedicati a Shiva, Krishna e all’assortimento lisergico di divinità associate nella teologia Hindu.Ovvio qui si parla di templi a Dubai, quindi i ricordi dell’india, o anche di Singapore, sono veri miraggi: una stanza con alcune statue, adornate dalle corolle di fiori, e un paio di fotografie sono tutto ciò che i fedeli possono avere, ma vista la folla del venerdì, questo appanna a sufficienza la nostalgia religiosa di casa.

Torno verso il parcheggio, evitando che gli stormi di gabbiani siano invogliati a cagarmi sulla testa, che pare la mia pelata abbronzata abbia un’attrattiva particolare. Ho scattato una quindicina di foto: più che a sufficienza per tracciare qualche ora di ricordi.

 

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