La strada sembra bombardata. Le buche sono dei veri crateri, e il Caronte locale ha dimostrato da subito la sua incapacità a guidare anche un triciclo. Molti dei lampioni sono accartocciati, intorcinati nell’agonia successiva a decenni di schianti, alcuni sembrano serpenti a terra. A lato della strada le carcasse di auto vengono cannibalizzate con la stessa rabbia delle iene, strappando parti e quant’altro possa essere riusato o comunque conservato.
Sono già in viaggio da quasi un’ora e il sole deve ancora sorgere: voglio andare a vedere Karl Marx Beach come la chiamano qui, in Angola, la versione locale della skeleton coast della Nabia, che si trova un paio di migliaia di chilometri più a sud. Carcasse di navi arenate da decenni, ormai ridotte a scheletri arrugginiti, con una in particolare che da il nome alla spiaggia, appunto la Karl Marx, un mercantile di medio tonnellaggio, registrato un tempo al porto di Luanda.
Abbandonato il centro commerciale della capitale dell’Angola, si attraversa una sorta di polo logistico in disuso, prima di raggiungere i Comuni del nord, baraccopoli dove una manciata di milioni di persone vive sotto i tetti di metallo ondulato, in assenza di strade, acqua potabile distribuita e fognature. La vita è scandita attraverso i riti del micro-commercio per chi resta, e della transumanza a bordo dei furgoni bianchi e azzurri, catorci eletti a trasporto urbano.
All’altezza di un’impresa di pompe funebri abbandoniamo la strada più o meno asfaltata, per entrare in una pista di terra battuta, sabbia, immondizia. Il tappeto di bottiglie di plastica e di ciabatte rotte e spaiate ci accompagnerà fino al mare.
La vita rurale fa sintonia con miseria: grossa parte del territorio è ancora minato e l’agricoltura non avrà mai lo sviluppo che il clima tropicale potrebbe concedere. Scassate motociclette ci incrociano e sorpassano, con una funzione di taxi vanno a recuperare chi deve raggiungere il più vicino posto di diligenze a motore.
Gli scheletri arrugginiti cominciano a essere visibili, mescolandosi negli spruzzi che l’Oceano Atlantico qui unisce a nebbie continue e a forti correnti che spingono dal largo a riva, rendendo impossibile, prima dello sviluppo dei motori marittimi, riprendere la navigazione senza arenarsi bloccati per sempre.
Comincio a camminare con attenzione, tenendo la mano della Signora Tedesca a Telemetro: il tappeto di polvere e sporcizia nasconde ferri, vetri e quant’altro potrebbe farti venire il tetano anche per corrispondenza. Un pallido sole esce a tratti, non convinto fino in fondo del lavoro che dovrebbe quotidianamente compiere. Lo scenario è post-atomico.
Distopia è la parola che mi risuona nelle orecchie. Il contrario di utopia.
I relitti hanno parti completamente distrutte, mentre altre mantengono quasi un segno vitale: uno squarcio nella sala macchine di un peschereccio rivela ancora un buon numero di cilindri nel diesel che lo spingeva, mentre parte dello scafo è totalmente separato, e nella bassa marea che sto trovando, riesci a camminare in quello che era un vasto vano di carico. I gialli e i rossi sono le ultime tracce delle pitture originarie, in un tutto virato nel marrone scuro dell’ossidazione. I nomi degli scafi mi lasciano immaginare storie.
“I traveled the world and the seven seas” (mitico pezzo) mi metto a canticchiare, mentre scatto ricordi con gli occhi e qualche immagine in una totale solitudine. La letteratura su questo posto è scarna, e affonda in navi abbandonate, alcune alla rada con i loro carichi imbarazzanti, che poi le mareggiate hanno liberato da ancoraggi approssimativi. Altre chiaramente spiaggiate, per portare cose, che nei decenni di guerra potevano solo aiutare ad uccidere.
Il posto ha un fascino inquietante, ed è un privilegio poterlo raccontare e fotografare …
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