Uscire dalla MRT, il sistema di trasporti metropolitano di Singapore, forse il più efficiente dell’universo, ed entrare nel Tikka Market, a Litte India, è come fare un salto quantico in un differente mondo.
Una galassia nella quale tutto ciò che può anche essere vagamente considerato commestibile secondo i canoni asiatici, viene esposto, scelto, lanciato in una cesta, tagliato, eviscerato, pesato e fatto oggetto di una transazione economica nell’unico posto in cui il ”cashless” non esiste, ma le banconote passano di mano assieme a pesci, carni, verdure, e quant’altro.
Ho fatto questo percorso decine di volte, in un reticolo di bancharelle e stalli non disegnati per la mia stazza, sempre affascinato dai colori, dagli odori, da cosa vedo, ma soprattutto dai volti di chi vive questo mercato e non il mondo cristallino, asettico e criogenico delle shopping mall, templi della Retail Religion qui nella città stato.
Attraverso l’area riservata a chi vende carne, con il rumore secco del coltello Chinese a preparare le porzioni, con lo sguardo sempre un po’ inquietante dei macellai. Mi faccio largo a fatica tra gli stalli del pesce, che deve essere toccato per saggiarne la freschezza, altro che la pupilla o l’odore. Il sabato mattina poi è frenesia, ma in un continuum che è sempre quello di Singapore: ordine, rispetto, pulizia.
Mi vien quasi voglia di comprarmi un tonnetto, mettermelo sotto braccio, a mo’ di baguette quando vivevo a Parigi, e addentarne qualche pezzo mentre giro a scattare ancora delle immagini, perché il fascino di questo posto ti offre continuità e diversità al tempo stesso. Guardo ammirato il lancio di un barramundi, a centrare perfettamente la cesta, e tento di comprendere una dissertazione su come scegliere i granchi blu con il cervello più gustoso.
Attraverso Buffalo Road, per immergermi nei colori delle collane votive di fiori, e per raggiungere la bassa costruzione oltre Serrangun Road: voglio andare a salutare Jack, il mio storico pusher di pashmina qui a Singapore. La sua bancarella oggi è diversa.
”Jack is no more”, mi dice un tipo seduto in quello che per oltre venti anni è stato il suo sgabello. Se n’è andato, per sempre.
Lo conoscevo dalla metà degli anni 80, quando bazzicava ancora nella zona di Orchard road e vendeva orologi patacche, sostenendo una sua deontologia nel commerciare falsi di qualità. L’avevo riscoperto a commerciare pashmina nella zona di Little India, ed era nato un decente sodalizio, dove lui mi truffava con moderazione, dandomi comunque la merce migliore.
Tutti lo chiamavamo Jack, per la sua passione alcolica verso il whiskey del Tennessee, che spesso lo portavano ad avere le pupille che sembravano etichette di bourbon, e una parlata che non certo brillava per chiarezza. E sto parlando della mattina. Mai visto sobrio manco un giorno. Mai visto un solo minuto senza una sigaretta in bocca: se non l’ha ucciso l’alchol, ci ha pensato il fumo.
Negli anni era diventato un MIO punto di riferimento: gli mandavo gli amici a salutarlo, e lui mi faceva sempre fare bella figura. Uno degli ultimi giri da queste parti, in occasione della festa del Depavali, mi aveva offerto i dolcetti tradizionali, sostenendo che ne avesse fatti fare una partita anche alcolica, tutta per se. Mi mancherà quel dannato ubriacone.
Penso che il suo corpo, sulla pira funeraria, abbia fatto lo stesso effetto di una molotov. RIP Jack.
Lascia un commento