Camminare in giro per Lavander è come rientrare nella Singapore degli anni ‘80, quando sono atterrato per la prima volta nell’Isola Stato che proibisce il chewing-gum.

Quartiere di Kallang, Lavander ha largamente ignorato per ora il frenetico sviluppo che ha aggredito e trasformato larga parte della città a Ovest, dove gli approdi del Singapore River sono diventati un esempio di architettura futuribile, e nella “reclaimed land” quella enorme tavola da surf sostenuta da tre grattaceli che è Marina Bay Sand.

Lavander sono gli appartamenti del piano pubblico, ancora occupati da anziani, sono le caffetterie dove il Malay entra nella lingua Chinese, dopo aver assaggiato quella Inglese, offrendo una rotondità di tradizioni che si nutre di chicken rice con una delicata vegan oyster sauce. Lavender sono i templi, inaspettati e intrusivi, dove anche un angolo di marciapiede può ospitare il dono di frutta e un bastoncino d’intenso. Lavander sono i negozi di ricambi d’auto, in verità simili a sfascia carrozze, dove si commercia più in passione che in ferraglia, con orari di apertura che solo gli iniziati possono comprendere, mentre intorno a mezzanotte abbracciano un cerchione come se fosse la propria donna.

 

 

We don’t fight heavy weight” mi dice la ragazza all’ingresso, mentre da dentro la musica risuona con più decibel che ISO nella mia macchina fotografica. Le mie dimensioni, che già in Italia fanno spazio, qui in Asia, favorite dall’antropometria a scartamento ridotto della popolazione locale, mi fanno apparire come Primo Carnera, e identificare per uno dei pugili che stasera si scambieranno cazzotti, qui nel FooChow Building, alle spalle di Jln Bear Road.

I am the photographer” le rispondo, vedendo rasserenare sia i suoi lineamenti, che quello della bestia con una maglietta “SECURITY”, preoccupato da un confronto che non apparteneva ai suoi desideri per la serata. Mi ha invitato Bikin, un Ghanese sposato con una Canadese, trapiantato qui da HongKong, con una passione fotografica e anche lui devoto della Religione del Telemetro Wetzlar: tira cazzotti col suo club, ma stasera è qui per scattare immagini, e una Japponese ultra-veloce e super-tecnologica gli ciondola dal collo, sotto il solito sorriso sornione.

Mate, you can’t use a Leica M for shooting sport event, mostly boxing” mi risponde, mentre io tiro fuori la Signora Tedesca a Telemetro con il suo vetro preferito, un Summilux 35mm. “You watch your mouth, kid”, gli dico, “and be ready to be amazed”, mentre prego la buon anima di Martin Chapman che, con Raging Bull (Toro Scatenato in Italiano), nel 1980 ha dato la fotografia al fantastico lavoro con il quale Martin Scorsese ha diretto Robert De Niro, nell’epopea della boxe in bianco e nero. Sposto il selettore della M10-R su “monochrome” come se stessi scarellando l’otturatore di un kalashnikov, e per le successive 6 ore mi muovo tra il ring, gli spettatori e gli spogliatoi.

 

 

In un mondo dove alla fine solo uno delle quattro braccia viene alzato dall’arbitro, ho simpatia per gli sconfitti.

I round si susseguono, all’inizio la tecnica è chiara, poi arriva la stanchezza, e poi l’affanno. Sono entrato anni fa tra le corde, dopo mesi di allenamento che mi avevano fatto scoprire l’armonia di uno sport tecnico e completo, dove la testa, nel senso della lucidità, guida molto più che le bordate di diretto che davo, trascinando dietro al guantone i 125 kg della mia massa, spinta dalla gamba e dalla rotazione del busto più che dall’estensione dell’avambraccio. Si, boxare è movimento, attenzione, armonia, e concentrazione: nel momento in cui ti distrai, il dolore ti ricorda dove sei.

I tre minuti del round sono infiniti. Il minuto seduto all’angolo un’agonia con le pulsazioni del tuo cuore che non accettano nessuna razionalità, mentre il tuo desiderio di ossigeno cresce a dismisura. Poi gambe e braccia cominciano a non risponderti più, prima di lasciare che anche il cervello dimentichi tutto quello che ti hanno insegnato, e mulini i guantoni, non sapendo se sia un attacco u una difesa, sperando solo che arrivi quel cazzo di suono della campanella a fermare la tua fatica. Tre minuti, tre round: nove minuti in un quadrato tra corde tese. Una vita, credetemi.

 

 

Una ragazza, della squadra ospite Thailandese, chiaramente non ha nessuna possibilità di vincere l’incontro. Malgrado i matches siano equilibrati, e combattuti da “professionisti”, che qui semplicemente intende il fatto che non usi il casco di protezione, visto che non esistono ingaggi o premi, lei non ce la farà, lo vedo subito, nel primo round.

Cade al tappeto la prima volta: il gancio destro l’ha trovata con una difesa bassa, e lo spostamento della testa le ha spento la luce per qualche decimo di secondo. Al quinto numero si rialza.Pochi secondi dopo è un diretto allo stomaco. Si piega, aggrappandosi alle corde, e mette un ginocchio a terra, mentre l’arbitro spinge la sua avversaria nell’angolo opposto. Il suono del gong le lascia un minuto per riportare l’aria nei polmoni.

Un gancio destro la abbatte di nuovo, alla metà del terzo round. Si accartoccia sul tappeto, mentre la sua sofferenza sta diventando l’ammirazione di tutto il pubblico, in un caos che le fa echo nella testa. Questa vola il numero arriva al sette, ma fa segno che vuole continuare.

I suoi guantoni sono ormai sotto il mento. Il movimento della gambe si è trasformato in pochi lenti passi per resistere allo essere spinta nell’angolo. Va giù di nuovo. In ginocchio. Si rialza, e con lei tutto il palasport, in centinaia stanno urlando il loro rispetto per la sua forza di volontà: quella fisica l’ha già lasciata. Il secondo sale sul bordo delle corde con un asciugamano in mano, ma lei scuote la testa. È ancora in piedi, e annuisce all’avversaria, “let’s box” le dice con gli occhi.

Deve arrendersi all’ultimo gancio al fianco. L’arbitro ferma l’incontro e Rungkapha Kaewkrachang, questo il suo nome, finisce la sua avventura di stasera, e ripartirà per tornare nella sua Thailandia tra le urla di acclamazione e di rispetto di tutti. Rispetto. Rispetto testimoniato anche dall’avversaria, che le alza il braccio a riconoscere una sportività che vince dolore e fatica.

La serata si chiude dopo altri 4 incontri: La Signora Tedesca a Telemetro mi aiuta con i ricordi e le emozioni, prima che l’oblio di una birra e un piatto di fried pork belly mi faccia intentare dal fegato una class action. Suona il gong e vado a dormire che ormai la notte ha passato la mano al mattino.

 

 

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