Costruito nel 1973, lungo la Beach Road che all’epoca vedeva in questa zona dei dormitori provvisori o piccoli cantieri, il Golden Mile Complex è uno degli esempi di architettura Brutalist di Singapore. La struttura rappresenta anche un modello nell’integrazione di spazi con funzionalità diverse: mentre il piano terra è dedicato alla food court, i successivi due piani hanno destinazione retail, con anche qualche interessante negozio che vende amuleti alla comunità Thai, che ha fatto del GMC una loro forte enclave.

Diversi piani sono poi destinati a uffici, per terminare con una destinazione abitativa, dove ogni appartamento ha una terrazza che si affaccia sullo spazio d’acqua formato da Kallang river, davanti allo Stadio. La facciata a “gradini” ha poi attirato critiche per l’approccio non coordinato dei proprietari degli appartamenti, che hanno aggiunto pensili e chiusure ad aumentare lo spazio vivibile all’interno degli appartamenti.

 

 

Nel mio continuo peregrinare in giro per l’isola (i confini sono ancora praticamente chiusi), ieri mattina sono andato a visitare il GMC, già sapendo che il mix tra le regole imposte durante questo soft-lockdown, e il futuro incerto del complesso non mi avrebbero fatto trovare una gran socialità: la realtà è stata forse anche più disarmante, visto che anche tutta la vasta popolazione di helpers che normalmente riempie a stormi questi spazi, hanno ricevuto l’istruzione che “è meglio starmene a casa o qui si rimane in lockdown fino al prossimo Chinese New Year”.

Unica nota di costume è stata quella dell’incontro con un addetto alle pulizie, che vedendomi con la Signora Tedesca a Telemetro attaccata al collo, mi ha prima mostrato orgoglioso il suo badge “staff” e poi mi ha intimato con un gesto di allontanarmi, sperando che la sua autorità mi incutesse un reverenziale timore. Gli ho ricordato che il Singapore PDPA, Personal Data Protection Act, mi consente di fotografare chiunque sia nell’esercizio delle proprie funzioni, o in uno spazio pubblico non soggetto a restrizioni: temo che il mio inglese e il suo Malay abbiano trovato poco terreno comune, e comunque l’ho lascito lì col suo braccio teso ad indicare l’uscita, continuando a camminare nella direzione opposta.

 

 

 

L’interno presenta un viraggio verde fosforescente, per la temperatura del colore delle insegne, ottenute ubriacando i gradi Kelvin con i peggio liquori fermentati dell’Indochina: poco merita uno scatto, se non le poltrone  che hanno visto decenni migliori. Il mix poi tra karaoke bars chiusi, centri massaggi aperti ma apparentemente vuoti, negozi di amuleti chiusi (alcuni decisamente per sempre, “che sfiga” verrebbe da dire), e stalli alimentari che dubito vedano anche un sol cliente nella giornata conferisce un’aria post-nucleare al tutto.

Prossima settimana si dovrebbe ricominciare una vita quasi normale, stiamo a vedere …

 

 

 

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