La lingua Malay, una delle tre più parlate qui a Singapore, ti insegna ad usare l’espressione “Selamat Pagi”, “che tu abbia una mattina di/in pace”, quando vuoi essere cortese. Sono state queste le uniche due parole che ho pronunciato, passando poi al Singlish, la lingua franca dell’isola stato, brodo di Inglese, dialetti locali, malese e Chinese, per chiedere al barbiere e al suo cliente se potevo scattare delle fotografie.
Era già qualche volta, nell’ultima decina d’anni, che passavo davanti a questo negozio, sempre desolatamente vuoto, ed ero affascinato dalla quantità di specchi piazzati intorno alle pareti, che trasformavano i pochi metri quadri in un mondo poli-dimensionale e replicativo. Stamani invece, mentre un paio di Signore Tedesche mi ciondolavano sulla trippa ho miracolosamente visto un cliente.
Penso di frequentare un barbiere forse tre volte all’anno: quando la pigrizia di radermi pelata e barba mi assale, e voglio abbandonarmi al rasoio altrui, mentre vengo intrattenuto da una vagonata di amabili minchiate, che vanno dal calcio (di cui ignoro tutto), alla caccia (net caso mi rada in Trentino) o alla stagione delle acciughe (quando sono a Genova), ai commenti sui massimi sistemi politici ai quali evito di reagire per buona pace del mio cuoio capelluto.
Quello che mi ha stupito, nella ventina di minuti nei quali sono rimasto dentro, in una temperatura da obitorio, è stato invece il silenzio totale: manco il ronzio dei neon, che le mosche devono volare con maglione e cappotto nel caso. Lo sforbiciare, non certo veloce ma costante, sulla testa del cliente, era l’unica cosa che distingueva la scena come viva.
Il gioco di specchi è quasi disorientante. Mi guardo la nuca, e il barbiere è attorno a me in almeno 10 immagini: varrebbe la pena di fare una di quelle spettacolari fotografie di Marco Carina, che espongono a 360 e più gradi. Scatto qualche foto con la Q2 e un paio col 50 della III, e poi inverto la marcia e torno in albergo: settimana in salita, meglio preparare un po’ di lavoro.
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