Chinatown con un Gufo

La Chinatown di Bangkok è una delle più grandi al mondo”, mi dice Owl (“Gufo” in inglese), che mi sta guidando in una lettura della Thailandia un po’ fuori da quella stereotipata di spiagge, templi e turismo sessuale. Non sono riuscito ancora a capire come si chiama, visto che si è presentata con un insieme di “o”, “n”, e “v”, il tutto condito dall’accento nasale che contamina l’anglosassone di queste parti, ma ha una pettinatura a caschetto che le gira in sincronismo con lo sguardo, e l’accostamento fonetico col pennuto mi è venuto immediato.

Stiamo percorrendo Yaowarat, dopo aver lasciato la “China Gate” che sorge su Odeon Circle, e il traffico dà battaglia alle migliaia di street foodies che accalcano in una cornucopia di banchetti, estesi per almeno 2 chilometri sull’arteria principale, ma presenti anche sia a nord che verso sud nelle strade e pertugi laterali. Il singolo metro quadro è battaglia tra chi cuoce, chi fa la fila per mangiare, chi agita qualsiasi utensile atto a portare alla bocca il cibo, e chi guida. Gli odori del cibo sono così forti da coprire anche quello dei gas di scarico.

I Tuk-Tuk, i moderni rikshow a tre ruote, che ricordavo romantici durante i miei primi viaggi in Asia quasi 40 anni fa, adesso sono diventati dei dragster con motori aggressivi, pneumatici a sezione allargata, e tubi al neon sotto la scocca, a dimostrare che “Fast & Furious” è diventato un’egemonia culturale globale. Danno delle sgasate da impennata, e chi è al manubrio si atteggia ad harleysta della prima ora.

Owl mi sta guidando in quella che lei ritiene sia la più completa esperienza di street-food: cominciamo con dei noodles di pesce, impreziositi da una salsa chili che fa virare all’amaranto la ciotola. Le bacchette si sono bruciate per autocombustione appena immerse nella poltiglia, e la sensazione di star mangiando una zuppa di napalm è stata istantanea: arrivato a metà ho dovuto abbandonare.

La camminata verso la seconda stazione di questa Passione alimentare mi ha portato ad un assaggio di dim-sum, senza lode ne infamia: dopo Hong-Kong e Shanghai è difficile convincermi che lo sappiano preparare al di fuori del territorio Chinese. Facciamo una tappa di decompressione davanti ad un negoziato con degli infusori di rame che sputano due liquidi, il primo del colore di un giallo paglierino, il secondo una quasi scuro come la melassa: si tratta di tisane miracolose, a suo dire. Mi allunga una coppetta di quella più scura, che si rivela una sorta di Amaro Montenegro alle spezie, scaldato, nella versione più barocca che abbia mai assaggiato della grolla Valdostana.

Il casino comincia a regnare sovrano, ed è difficile muoversi in questa massa di persone e veicoli: mi trascina in un vicoletto sul quale si apre un ristorante che pare uscito direttamente dalla sceneggiatura del primo Blade Runner. Ordina una “fish chili-pot”, e del branzino in agrodolce. Riesco a sentirne la piccanza, malgrado abbia ancora bocca e labbra anestetizzate dai noodles di oltre un’ora e mezza fà. I condizionatori, uniti al neon, portano il luogo verso lo spettrale-criogenico, ma si riempie all’inverosimile e solo di locali: manco un turista, son tutti fuori a combattere un duello all’ultimo spiedino.

Vengo graziato con una Sin, la birra Thailandese, e riesco nuovamente a parlare senza sembrare in crisi d’asma. Nuovamente in strada, e Owl mi descrive la nuova prelibatezza: un riso al pepe bianco, cotto tra le frattaglie di maiale, e ingentilito dal lemon-grass. Decido di fermarmi, ormai rotolo con una trippa che sorge sopra la cintura, vanificando le ultime 3 settimane di sport in poche ore, ma la mia Virgilio thailandese non si arrende, svicolando tra le fiamme a gas mi trascina ad un banchetto di gelati.

Il sorbetto al latte di cocco, e quello ai leeches, danno finalmente una tregua alla mia lingua. Siamo lontani dalle maestrie di San Giuda o da quelle del Gelato dei Carruggi, ma almeno il palato si riconcilia e le labbra cominciano a sgonfiarsi.

Mi arrendo all’infuso che lei sostiene sia miracoloso per la digestione, malgrado le abbia detto “Credo solo alla Citrosodina”, riuscendo anche a pronunciare “chee-tzo-deeinah” per renderlo più foneticamente accettabile, ma finalmente le faccio pena: sono quasi tre ore che passiamo da un instabile sgabello di plastica all’altro, spesso co i paraurti delle macchine che ti sfiorano il gomito, e i passeggeri degli autobus (senza vetri, viaggiano sempre a porte aperte), che osservano incuriositi la mia pelata mentre svetto sull’antropometria locale di un paio di buone spanne.

Entriamo in un’altro universo, quando una chitarra jazz suona i primi accordi, seguiti poi dalle melodie di un sax alto. Malgrado il locale dia sulla strada, e fuori sia la bolgia infernale, uno scudo spazio-temporale fa dell’interno un’atmosfera soffusa, dove cameriere e ladyboy ondeggiano reggendo in mano vassoi, con sopra monumentali cocktail che sembrano mongolfiere psichedeliche. Mi arrendo, per cortesia politica, ad un “Bangkok Sling”, versione locale di un classico nel Raffles di Singapore, ma alla prima ciucciata gli zuccheri stordiscono qualsiasi sapore.

Abbandono, torno nel mio ostello, approfittando di una pausa nell traffico caotico, dove un sistema metropolitano che offre solo parziale copertura, è peggiorato dalla serata di festa. Domani parto per qualche giorno verso nord, e non mi fermo fino a quando la Thailandia si incunea a triangolo tra Myanmar e Laos.

 

 

 

 

 

 

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