Le valutazioni attorno la geniale opera del fotografo Gilbert Garcin tendono coagularsi per stereotipi.
Parlerò dunque della faccenda del suo pregresso lavoro “borghese”?
No, già diedi.
Lo feci sulla carta di FotoCult allorchè – celebravo l’opera di Valerio Sartorio – citai quali prodromi impiegatizi
Balzac, Diderot, Zola, Saba, Montale, Gaugin, Gogol, Kafka, persino Bukowski.
La diatriba postpruduzione digitale / fedeltà analogica?
No, non questa volta.
Cosa, allora?
Una cosa che non a tutti piacerà.
Perchè è una cosa da calci nel sedere, se mi si consente l’indulgimento al turpiloquio con finalità di pregnanza semantica.
Sapete cosa soleva dire Gilbert?
Che si estenuava, nei suoi fotomontaggi.
Provava, limava, riprovava.
Non era pago se non a prezzo d’infinite correzioni.
Una attitudine artigianale che si colora di segno.
Perchè il modo è il risultato.
Sapete, sto per sferrarli, quei prosaici benchè metaforici calci nel sedere.
Sto per indossare la tunica di Savonarola, e puntare il nodoso indice con accigliato ciglio.
Lo faccio contro chiunque lasci sbavature.
Orizzonti storti.
Brandelli di case od oggetti alle inquadratorie estremità.
Mancanza di bolla, ergo latitanza di ortogonalità riproduttiva.
Sapete, a noi è sufficiente abbassare un dito per sprigionare mondi.
Ma il mondo esige modi.
Sì, il modo è il risultato.
Non rovinate tutto per accidiosa ignavia.
Esiste un girone dantesco pei fotografi, ogni volta che per pigrizia scivolano nell’insignificanza.
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Claudio Trezzani
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