Un’ Eco non eco

Mi è testè capitato tra le mani un breve saggio di Umberto Eco sulla bruttezza.

Avendo due occhi caratterizzati da una miopia pressoché identica, ho incaricato le suddette mani di far coincidere il mio naso con il centro orizzontale della pagina prescelta, onde assicurare a ciascuna pupilla un carico di lavoro equivalente.

In tal modo ho determinato una simmetria relazionale con l’oggetto, da parte di un viso che è a sua volta simmetrico per la presenza reciprocamente equidistante dei summentovati organi della vista.

Perché specifico ciò?

Perché trattando di simmetria entro subito in medias res circa le affermazioni dello studioso piemontese, giusto per proseguire con le ricadute in fotografia.

Eco riferisce che Giamblico (in “Vita di Pitagora”) erige a canone di bellezza la simmetria, e per converso attribuisce alla sua mancanza le stimmate della bruttezza.

Il guaio in cui si tuffa Umberto è che poi cita Guglielmo d’Auvergne laddove scrive che va considerato turpe – per come la cosa l’intendeva Tommaso d’Aquino – chi ha un occhio solo oppure tre, e – Umberto istesso – non si dissocia dalla summenzionata dichiarazione.

Non se ne discosta e vi aderisce, poiché stabilisce: “come anche il bello, dunque, il brutto è un concetto relativo”.

Ecco, sono qui per confutare.

Perché vanno bene Giamblico e Tommaso, ma senza Guglielmo.

Spiego: Giamblico segue il ragionamento di Tommaso , ma Umberto prende a prestito le parole di Giamblico per
ulteriormente allontanarsi dal primigenio significato delle pregresse asserzioni.

Perché lega la relatività percettiva del brutto ad una esemplificazione che non vi corrisponde.

E qui torniamo alla faccenda di avere uno, due, o tre occhi.

Non è vero che avere occhi in numero dispari pregiudica la simmetria.

Nel caso sovrabbondante: se quello centrale lo è davvero ed i laterali presentano valori numerico/geometrici speculari, essa è salva.

Nel caso di riduzione: qualora l’unico oggetto divida – per puntuale accenno proiettabile su linea –
in parti eguali le porzioni del viso laterali, di nuovo la simmetria è preservata.

Eppoi, a pagina sette Umberto s’espone ancora a considerazioni eccepitorie disallineate.

Perché dice che il bello è distacco, assenza di passione.

Capirete bene che Stendhal, specie rimembrando taluni momenti del suo Grand Tour in Italia, non sarebbe d’accordo, anche se non avrà saputo che quel suo atteggiamento verrà appellato sindrome.

Eddunque, la simmetria è una cosa seria.

Proprio per questo vi ho stufato procrastinando il momento di parlare di fotografia.

Rimedio adesso.

Abbiamo qui due eccellenti fotografie, di Wafaa Taher e di Sergio Doria.

Rigorose, appassionate.

Appassionate nel ricercare rigore.

Che essi individuano nell’ottenimento di simmetria.

Che c’è, e beffarda s’eleva sopra l’indigesta preconfezionatura di formule che vanamente vagheggiano il reperimento di virtù in un decentramento controllato (regola aurea, dei terzi, spirale di Fibonacci).

C’è, la simmetria, ma non tutto può comprendere.

E se tutto non può, stabilisce priorità.

Scale di valori, subordinazione di sottoinsiemi.

Quanto a Wafaa: la finestra centrale sfugge alla regola, e nel sottrarvicisi enfatizza per contrasto il generale plurimo equilibrio.

Nel caso di Sergio: ogni cosa è virtuosamente asservita a proporzionalità, ma anche qui nel convergere al centro l’omogeneità scansionatoria complessiva trova discontinuità che apportano dinamismo.

Ed insomma, la realtà vibra.

Monacalmente votarsi all’esattezza non preclude rattenute pindaricità.

 

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Claudio Trezzani

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