Nel mondo della nautica, prima che l’avvento dei dispositivi a collegamento satellitare semplificasse di molto un certo numero di procedure, e dopo aver fornito ai naviganti gli strumenti tecnici per calcolare rotta e consumi di carburante, si raccomandava (ma lo si fa ancora) di maggiorare del trenta percento quest’ultimo calcolo.
È intuitivo capire perché: correnti, venti, imprevisti vari.
Quando ci si avvicina al limite, vari avvisi elettronici possono essere oggidì impostati.
Ma come avviene il passaggio dall’avvertimento all’azione?
Negli ordini professionali ritualmente esso è graduato in quattro fasi: 1) avvertimento 2) censura 3) sospensione 4) radiazione.
E nel mondo dei droni? Rimaniamo sintonizzati sulla questione della scarsità di forza motrice
È generalmente possibile impostare un avviso di scarsa carica di batteria su percentuali variabili, cui corrisponde un sistema di segnalazione che si fa via via più pressante in termini grafici e sonori. Il problema è che – trattandosi di corpi volanti – la circostanza di assenza di alimentazione costituisce un evento più pericoloso rispetto all’ambito nautico: il drone può cadere e causare danni.
Così i costruttori tendono ad impostare i software dei loro prodotti in modo tale che si passa dall’avvertimento che suggerisce l’azione del conduttore (far tornare alla base il mezzo) ad una azione del drone stesso che si sostituisce alla volontà del pilota remoto. Il primo stadio spesso è: se il conduttore ignora il suggerimento del software a tornare e contestualmente non esegue alcuna operazione in un predeterminato lasso di tempo, il drone torna automaticamente alla postazione di decollo percorrendo a ritroso la rotta già battuta.
E se invece il pilota remoto esegue manovre dopo le prime segnalazioni di scarsità di carica? Il problema non è secondario in ambito professionale: il conduttore può aver calcolato che l’energia residua è comunque sufficiente per un ritorno alla base.
A questo punto ritorna prepotentemente il concetto espresso all’inizio di questo brano: il software del drone si concede un margine prudenziale, analogamente a quanto avviene nella nautica.
Abbiamo visto che dopo una determinata soglia la volontà del drone si può sostituire a quella del controllore per impostazione di fabbrica, ed è precisamente qui l’inconveniente: il drone può decidere di atterrare anche se vi sarebbe energia sufficiente per un ritorno.
Questo avviene perché il drone “non sa” se tornando incontrerà vento contrario od una temperatura ambiente inferiore, fattori in grado di diminuire l’autonomia, ed è qui che il costruttore calcola il margine e lo impone alla conduzione.
Per risultato, in questa fase il drone rifiuterà una elevazione funzionale al ritorno, scenderà lentamente ed inesorabilmente, ma manterrà la rispondenza ai comandi per un moderato spostamento orizzontale. All’interno del margine “negativo”, abbiamo così un margine “positivo”: un certo tasso di traslazione atto per esempio a portarsi da una alberatura ad una radura, oppure da una superficie acquea alla terraferma.
Questa facoltà residua è importante: va considerato che nel caso della superficie acquea il drone dopo essere pervenuto alla sua prossimità, nei modelli più sofisticati la considererà inidonea all’atterraggio (rileverà un insufficiente contrasto d’immagine, ma potrebbe capitare anche il caso opposto, su terra ed in maniera meno dannosa: trovare una superficie più articolata di quella che aveva registrato al decollo) e sosterrà in stazionamento a tempo indefinito a meno di un metro d’altezza, per poi inabissarsi.
Ciò illustra un aspetto fondamentale nella conduzione dei droni: la casistica in volo è estremamente varia, ed altrettanto il comportamento del drone: occorre dunque prepararsi a fondo – leggendo nelle pieghe dei manuali ed altro – per essere preparati al maggior numero possibile di evenienze.
Mi riferisco a centinaia di ore di approfondimento prima di effettuare l’acquisto.
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