Tra possibile & attingibile

Cosa si mostra al nostro orizzonte? Se abitiamo in pianura, rechiamoci in campagna, laddove la vista lontana sia ragionevolmente sgombra da ostruzioni vicine. Fatto? Bene, cosa vedete? Niente, e la risposta è giusta. Ripetiamo  l’operazione in una giornata caratterizzata da vento sferzante e particolare tersità. Cosa vedete, ora? Le montagne. Stesso posto, ma sono comparse cose che non c’erano. E, badate, inamovibili. Qual’è la vista “vera”? Tutte e due.

Ecco introdotto un primo elemento di relatività, di variazione all’interno di altri fattori immutati. Stesso luogo, invariato nostro visus, eppure lo scenario muta.

Se introduciamo nell’equazione la mediazione di una fotocamera, la situazione si ingarbuglia, e per due distinti ordini di considerazioni.

La prima, il fattore di ingrandimento: se la focale della nostra lente è inferiore o superiore ai cinquanta millimetri interfacciati ad una superficie sensibile corrispondente al formato Leica, vista e mirino divergono. Consideriamo l’ipotesi dell’ingrandimento maggiore: vedremo cose diversamente non attingibili. Cose all’interno di cose, intendo.

Seconda considerazione, la compressione dei piani: non solo vedremo cose diversamente non attingibili, ma percepiremo mutate le loro reciproche relazioni: se ne sottostimerà la distanza.

Nella fotografia a corredo di questo brano il canale inquadrato dista un centinaio di metri dalla postazione del fotografo, mentre la montagna – il gruppo del Rosa – necessiterebbe di un viaggio di oltre duecento chilometri per essere raggiunto dal ritrattore. Eppure, “sembra tutto lì”.

Cosa ha fatto la fotocamera? Ci ha restituito un mondo alterato eppur veritiero. Perché non ci ha mostrato cose che non ci sono, ma un diverso campo di relazioni.

Sempre in tema di forti ingrandimenti, ma applicati alla ravvicinatezza, la visione macro rimarca sotto una luce di traslato potenziamento questo concetto: superando il rapporto 1: 1 ci disvela un mondo che non sospetteremmo. Non è solo questione di scoprire particolari che l’occhio umano non può cogliere all’interno di oggetti: la stessa mancanza di esperienza comune con i novelli – per noi – scenari determina una impossibilità di riconduzione a modelli noti, a codici interpretativi assimilati. Ed è questa una porta meravigliosa che la fotografia ci offre verso l’astrazione.

Forzando Platone e suoi epigoni, entriamo nel mondo della metafisica. Dal greco meta-, nel senso della trasformazione di ciò a cui il prefisso s’accompagna.

Assistiamo così al rumoroso cozzare tra il sensibile e l’intellegibile.

Meglio, siamo di fronte ad una piramide percettivo/cognitiva in cui i vari piani sono suscettibili di collassabilità.

Da principio – di questo articolo – sino a qui abbiamo visto cose ad un certo momento apparse pur se vi erano anche prima, a parità d’osservazione. Poi cose all’interno di cose. Indi cose immutate eppur reciprocamente variate. Infine, cose in un inedito universo di segni.

Tutto questo la fotografia consente.

Beati noi, ad essere con essa.

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