Tra emozione e resa

Cinque di mattina.

Oscurità, freddo.

Non ho niente da fare per la prossima mezz’ora: la macchina, issata su stativo e dotata di gimbal pluriassiale, è

impegnata in un prolungato motionlapse.

Ed allora faccio una cosa tremenda.

Una cosa che ordinariamente aborro e depreco al massimo grado di disprezzo.

Traggo da tasca lo smartphone e lo accendo non per navigare ma per fotografare.

Puro orrore, una azione intrapresa con il fatidico montanelliano turamento di naso.

O se preferite dirla alla latina, obtorto collo.

E il collo è sì sgraziatamente piegato ad osservare su sei pollici di luminescenza cose promettenti, non risultassero orrendamente compromesse quando al pensiero è seguita l’azione, pigiando su quel pittogramma di pulsante che snaturerà il veduto in immonde porcherie imbarazzantemente stivate nel dispositivo digitale.

Opero in manuale giocando sulla sotto esposizione, nel tentativo di apportare linguaggio alle sconcezze catturate da quella invereconda punta di spillo che lillipuzianeggia sull’algida superficie del sottile parallelepipedo.

A casa, a schermo, il disgusto cresce.

Patetici obrobri devastati da compiacenti algoritmi.

Epperò, di emozioni trattando, è un disgusto che traghetta un primigenio incantamento.

Aver goduto di cose poscia malamente costrette.

Devastante la mediazione, ma veicolante un barlume nel tempo trasportato.

Ecco allora – ma solo se gli eventi congiurano contro – perché non astenersi.

Si sarà sì correi d’indebita stomachevole propalazione.

Ma essersi accinti al mortificante compito permette di non lasciar svanire un moto provato.

Non lasciar svanire, non far palpitare.

Per questo occorrerà tornarci con mezzi degni.

Ecco, la famigerata facoltà fotografica dei telefonini.

Fuggirla quale somma iattura.

Ma se costretti utilizzarla quale appunto visivo.

Che obbliga a tornare, per tributare il disatteso onore.

 

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Claudio Trezzani

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