Rispetto ai fautori del NoTAV mi situo agli antipodi, ritenendo che una attenuazione delle difficoltà di comunicazione favorisca l’abbraccio fra popoli. Nondimeno, depreco la proliferazione di cavi. Quali cavi? Quelli relativi alla utenze energetiche. Beninteso: non li toglierei, comprendo la loro opportunità funzionale e del resto mi hanno spiegato che interrarli comporterebbe tecniche controindicazioni.
Ma pensate al celebre dipinto di Caspar David Friedrich, cosa direbbe il gentiluomo in marsina se scorgesse tra i vaporosi dirupi intrusivi segmenti a spezzare l’andamento del paesaggio? Forse, in preda all’ira, scaglierebbe nell’aere il suo bastone da passeggio. Fosse ciò che l’uomo vedeva, Friedrich avrebbe facoltà di rimediare: è pittore, sta a lui decidere cosa mostrare. Noi fotografi, no. Se il cavo c’è, tocca in sorte subirlo. Definitivamente?
Il computer ci fornisce la possibilità di ovviare al vulnus arrecato al paesaggio, il cavo possiamo – spesso, con nocumento alla qualità d’immagine, in assenza di campiture uniformi – eliminarlo. È lecita l’operazione? Conoscete la risposta: no se l’intento è documentario, si se si intende imprimere una connotazione autoriale.
Tuttavia non è così semplice: anche i fotografi che non transigono sulla fedeltà di riproduzione dell’esistente posseggono la loro cifra stilistica, anzi possono esprimere una nota personale anche più di chi è punto da vaghezza di percorrere la strada elaborativa.
Scomodo il grande Maestro Berengo Gardin per due sue affermazioni. La prima ove sottolinea che il DNA della fotografia è di matrice documentaria: pur non debordando da tali binari, Gianni è riuscito a realizzare capolavori che marcano l’autore non meno del contenuto. A proposito di quest’ultimo fattore, ho letto in questo sito accostarlo in dicotomica contrapposizione con la tecnica. Non è così: la tecnica è un prerequisito. In questa sua qualità essa è imprescindibile ma subordinata.
E qui approdiamo alla seconda asserzione del Maestro Gianni, quella secondo cui la tecnica fotografica si impara in un pomeriggio. Berengo Gardin qui usa un iperbole non solo per rimarcare il primato dell’ideazione, ma anche per sottolineare la povertà “manufattile” dell’atto fotografico: abbiamo ben poco da fare rispetto alla mirabile plasmazione dello scultore e del pittore, ergo il minimo che possiamo fare è acquisire una completa padronanza (non esiste il “troppo”) di prassi e funzioni.
Questo accenno alle arti figurative materiche rende il pensiero circolare: attraverso l’accostamento siamo pervenuti al tema iniziale. Che nel menzionare la possibilità di modifica rivela una differenza fondamentale: il fotografo si misura in prima battuta con il visibile, il pittore può principiare da una tabula rasa. Per menzionare il titolo di questo articolo: il fotografo sente vedendo, mentre il pittore può prescindere da una suggestione esterna e letterale. Manichea contrapposizione?
Fortunatamente, no. Pensiamo ai pittori impressionisti, e poi ai cubisti. Se i primi coglievano la natura di flusso della percezione, i secondi esploravano questo continuum sforzandosi di evocare una simultanea pluralità di tempi e prospettive.
Minimo comunque denominatore, il sentire, ovvero quella potente forza che colora la riproduzione dell’individuale apporto.
Togliere un cavo, lasciarlo: persino il concetto di modifica scolora al cospetto di ciò che Èmile Zola pensava di fronte ad un’opera figurativa: era l’Uomo ciò che lo scrittore francese si prefiggeva trovare.
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