Chiedete ad un marinaio incallito che tempo farà domani. Utilizzerà gli utensili dell’esperienza per fornirvi risposte pertinenti. O ad un contadino quando è il momento di fare cose. Oppure ad un battilastra come scolpire carrozzerie artigianali espressione di imperitura maestria in campo automobilistico.
Se invece entrerete in una storica osteria e chiederete ad un qualunque autorevole anziano in procinto di sorseggiare un rosso di spessore in caraffa qual’è la cartina di tornasole per mettere alla prova la bontà degli algoritmi sottesi ad un programma di fotoritocco fotografico vi risponderà: recupero delle alte luci e delle ombre. Già, proprio così
La cosiddetta prova del nove dei programmi di fotoritocco consiste nella verifica di quanto siano efficaci questi due comandi. Perché sono i più impegnativi quanto a determinazione dei fattori su cui è opportuno intervenire. È qui che è più difficile per un programmatore concepire stringhe di comandi per dire al programma quando, cosa, e come fare. È questo ci riporta indietro, virtuosamente.
Il cruccio a proposito di ciò che avviene alle due estremità dell’istogramma non è di oggi.
Dispositive: state attenti con le altre luci. Negativo in bianconero: qui potete ottenere la massima latitudine di posa. È uno storico confronto con l’occhio umano: sino ad ora ineguagliata la sua capacità di compensare i contrasti e in tal modo condizionare celebralmente la percezione del nervo ottico.
La sfida, dunque, continua in ambito digitale. Con una differenza, rispetto all’analogico: fermo restando al momento l’incapacità di avvicinare la percezione umana, l’elaborazione digitale sempre più consente un approccio ed un esito chirurgo: lavorare di fino come prima non si poteva.
Ciò parimenti spiana la strada ad infelici trattazioni, ma la colpa è dell’utilizzatore del software, non del programma medesimo.
Un esempio tra tutti: un tentativo di recupero delle alte luci che se estremizzato rende queste ultime un informe impasto grigio. Ma “natura non facit saltus” come i latini ci hanno insegnato e filosofi e botanici hanno interiorizzato.
È questo il corale segreto: tendere alla gradualità, rivelatrice delle infinite pieghe dell’esistente.
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