Dopo “una forma precipite della natura” e “tempi e densità” prosegue il ciclo di articoli intorno ai molteplici aspetti fotografici della ritrazione di cascate.
Questo brano è composto all’insegna del noto motto “chi non risica non rosica”, concetto che m’appresto esplicitare. Sovente per raggiungere cascate è necessario sottoporsi a percorsi impervi e/o a ripidi declivi. Si può così giungere al sito un po’ ammaccati e scorticati, ma questo rappresenta solo il preludio. Approdati al luogo di interesse, infatti, occorre considerare se l’inquadratura desiderata sia o no praticabile. E qui entra in gioco una … salopette da pescatore.
Si, avete letto bene: non basta un paio di stivali. Il fotografo serio non è un turista che fotografa da un ponticello: prima rischia artiale frattura per scendere a precipizio nella gola di un torrente, onde ottenere ortogonalità; poi si immerge nell’acqua sino al petto. Proprio così: stando a riva, numerosi possono essere gli elementi di disturbo all’inquadratura, in una progressione di estraneità che va dalla semplice disomogeneità della composizione alla vera e propria ostruzione.
Così non vi è altra scelta che calarsi in acqua insieme a stativo e fotocamera. Inverno od estate che sia, per tempi prolungati. Si potrà cadere o far cadere la fotocamera: a me è capitato persino di perdere due elementi tubolari (ritrovati sott’acqua in una sessione successiva) di un pesante Manfrotto senza nemmeno avvedermene, tale era il fragore dell’acqua in tumultuosa caduta che mi attorniava. In situazioni del genere il mio modus operandi si attesta sulla seguente delimitazione spaziotemporale: non più di tre ore entro una decina di metri quadrati. Il dato spaziale trova origine nella constatazione che in posti del genere si beneficia di una notevole ricchezza di ravvicinati spunti, nella multiforme relazione tra roccia ed acqua. Il dato temporale, invece, nasce dalla necessità di prevenire (ulteriori, se del caso) infortuni: dopo tre ore di lavoro, l’attenzione e l’energia ineluttabilmente subiscono una flessione
Ma vi è anche un altro motivo, certamente non secondario, per concludere la sessione: l’avvento di indesiderate lame di luce. Il fotografo serio, insomma, così come non può tollerare che elementi di disturbo interferiscano nell’inquadratura, ricerca la pulizia formale anche attraverso l’omogeneità illuminatoria: si reca nel sito quando ancora l’oscurità della notte non si è totalmente dissolta (fase critica: occorre prestare attenzione alle insidie nascoste nella morfologia del terreno) e se ne allontana non appena chiazze di luce oscenamente baluginanti guastano l’armonia della composizione
Accade infatti che le gole di torrenti serbino omogeneità illuminatoria per un tempo sufficiente ad una discreta applicazione, ma ad un certo momento nella parte alta dell’inquadratura i raggi solari iniziano a svolgere la loro azione guastatoria. Il fotografo consapevole, a questo punto è già lì che fa rientrare gli elementi dello stativo, esamina lo stato di umidità degli accessori, si sincera che i filtri siano al sicuro entro serrate cerniere di scomparti.
Se ne evince, in misura complessiva: non cedere a compromessi. Non lesinare alcun mezzo per raggiungere lo scopo, non accontentarsi di soluzioni inadeguate, non concedersi iato tra ideale e prassi.
Solo così il risultato sarà il frutto di una scelta che è libera e compiuta perché non ha abdicato ad impegno e conoscenza.
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