Sono su di una diga. Non mi attrae la letteralità documentativa.
Poi però scorgo una promettente possibilità isolatoria.
Scelgo, escludo.
Situo ciò che ritraggo in una situazione di ondeggiante irriconoscibilità: qualcuno individuerà il raffigurato come parte di un insieme, e da qui risalirà alla primigenia funzione, qualcuno no.
Ma ciò è fuorviante: il materiale è divenuto “cosa altra”.
Non siamo più al “cosa serve”, conta ciò che evoca.
Ma per depurare occorre esercitare rigore: scartare qualsiasi inquadratura che contenga dissonanze, non permettere che la coesione sia intaccata.
Perseguire con pervicace ostinazione una essenzialità mondata da spinte centrifughe.
Parlare un linguaggio univoco.
Porre l’asciuttezza – frutto di sintesi – al servizio della visione altrui, il cui irraggiamento è potenzialmente infinito.
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