Prima fotografia allegata a questo brano, quella a colori. L’obiettivo punta dei riflessi in acqua e …siamo a posto così, se proprio debbo esprimermi crassamente.
Ciò in quanto la summenzionata immagine soddisfa il criterio di riconoscibilità (l’oggetto della ritrazione è individuabile), il criterio di aderenza (non vi è manipolazione – al momento dello scatto od in postproduzione – che tradisca l’aspetto originario), ed il criterio di destinazione (tutto ciò che ho specificato sino ad ora è tale rispetto alla percezione umana).
E però, si fa presto a parlare di riconoscibilità, aderenza, aspetto originario. Leggiamo Platone, nel passo della sua Repubblica ove introduce l’allegoria della caverna.
Si descrivono uomini all’interno di un antro: essi vedono ombre riflesse dall’esterno, ma rimanendo dentro le interpretano come “reali”, nel senso di “originarie” (non frutto di riflesso). Il filosofo è dunque colui che esce dalla caverna, per approdare ad una percezione non ingannevole. Ci è riuscito, l’uomo, ad uscire dalla caverna?
Ancora nel mondo greco i filosofi (Talete, Anassimandro, Anassimene) si estenueranno su questo tema, e così si proseguirà nell’età moderna (Merleau-Ponty come caposcuola di una corrente, e tra gli altri Cartesio e Locke). Il dato di partenza è che la percezione è relativa, poiché dipende da chi la prova. Il quale è l’attore non solo del suo vissuto, ma anche della sua costituzione.
A questo proposito possiamo passare alla seconda fotografia, che in bianconero riporta una veduta simile alla precedente. Qui qualcuno principierà porre la domanda: “È ancora una fotografia?”.
Questo interrogativo non si basa certo sull’eliminazione dei colori, ché la scala di grigi è gamma il cui uso è benedetto dai puristi del linguaggio. Piuttosto, la perplessità nascerà dal forte sapore astratto, dal minimalismo che scaturisce dall’esasperata isolazione. Qualcun’altro osserverà in proposito: “se non fosse per la foto precedente, di questa ulteriore non avrei riconosciuto l’oggetto, dunque per me non è più una foto”. Siamo arrivati alla terza fotografia. Orrore!
Qui sì non si capisce niente: è un ammasso informe reso ininterpretabile dall’accentuata sfocatura.
Qui però occorre introdurre il concetto di spartiacque, per come è stato definito da alcuni. Secondo loro una immagine cessa di essere una fotografia quando la si manipola digitalmente.
Ebbene …. sorpresa: questa foto non è stata manipolata digitalmente (salvo il ritaglio quadrato e la regolazione del contrasto tonale): ciò che potrebbe non farla più annoverare tra le fotografie – la pronunciata sfocatura – non è stata ottenuta al computer, ma direttamente in fase di ripresa ruotando volutamente la ghiera della messa a fuoco. Poniamo ora il caso che quest’ultima fotografia fosse stata realizzata in maniera — diversamente voluta – nitida. Avremmo così corrisposto al concetto di riconoscibilità (sarebbe apparso meglio definito quello che è il corrimano di un ponte, e sullo sfondo edifici), a quello di aderenza (quello era, quello è stato riprosdotto) e a quello di destinazione (tale è per noi in quanto esseri umani).
Ma è in quest’ultimo presupposto che risiede l’inghippo: siamo arroganti, ineluttabilmente antropocentrici. Perché definiamo “luce visibile” quella che è percepibile per noi (tra una lunghezza d’onda di 780 e 390 nanometri), così sostituendo con un dato parziale (in quanto appannaggio di una sola categoria percettoria) la realtà parcellizzata (frutto della somma di tutte le qualità percettorie esistenti).
Per altri animali invece – come sappiamo – lo spettro del visibile è maggiore o minore, così come il tasso di definizione o l’elaborazione cromatica. Senza poi sottacere la peculiare proiezione mentale delle varie specie di esseri viventi: il fatto che essa sia a noi inattingibile non significa che non sia esistente e qualitativamente connotata.
Relatività, dunque, ma non disgiunta da intenzione. Il fotografo infatti non può non misurarsi con il corredo cognitivo di chi guarda: dall’incontro tra questi due elementi nasce il linguaggio.
Epperò ogni linguaggio (sia esso verbale o visuale) soffre lo iato che discende dai limiti di qualsiasi codificazione: l’ineliminabile scarto valutativo a parità di segno tra chi lo adopera e chi lo riceve.
Ma è una dolce sofferenza, anzi foriera di succosi frutti: la giustapposizione tra elaborazione ed interpretazione ha per risultato una stimolante entità terza, l’impreveduto divenuto realtà percepita.
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