Sono un talebano dell’istogramma. Ho un approccio manicheo alla sua montuosa siluetta. Nutro un religioso integralista furore verso la preservazione degli estremi.
Mi professo adoratore del feticcio dell’anticlipping. Ma occorre contestualizzare.
Si cresce se si è disposti all’autocritica. Troppo facile affermare di inseguire l’emozione. Essa non esclude il raziocinio. Bisogna sì intensamente abbandonarsi tra le voluttuose spire dell’emozione. Ma poi, al momento di tradurre in linguaggio, occorre sorvegliarsi. In una occasione, mentre catechizzava una platea statunitense, Umberto Eco esclamò: “we have to tame inspiration”. Curiale algore da filologo?
Eco voleva significare, suppongo, non tanto che l’estro va “domato” nel segno della mortificazione, quanto incanalato. Convogliato entro il solco della consapevolezza dei mezzi e degli esiti. Goffredo Petrassi affermava che l’ispirazione va sempre ricercata anche se non esiste. È una spruzzata di cinismo che aiuta ad esprimersi compiutamente. Veniamo alla fotografia, dunque. Si cresce se si è disposti all’autocritica, dicevo. La cosa non è disgiunta dall’affinare il così appellato “gusto”.
Esso non è interamente inscritto nel codice genetico individuale. Letture, incontri, studi, rimirazioni. Al loro sommarsi, cose che si facevano non si fanno più. Ci pungeva vaghezza presentare fotografie dal contrasto tonale smodato? Da ciò ci si è emendati.
È una evoluzione che, esplicandosi nella chirurgica esplorazione del file, si nutre della cura verso una estetica che mira ad una sintassi non sbracata . Sapere cosa, quando, come e perché fare. Ma, anche qui accennavo, giova contestualizzare. Ci si macera nell’intento di mantenere dettaglio nelle ombre fonde, e per converso non violare l’estinzione del contenuto nella regione dell’abbacinanza. Ma poi interviene il filtro della concezione. Ad esempio, mi sono imposto la regola di non annoverare tra la bruciatura delle alte luci (non considerarla tale ai fini della regolazione in macchina e/o del trattamento postproduzionale) il riflesso del sole sulla canna della bicicletta.
Ciò in quanto trattasi di situazione che anche l’occhio umano percepisce quale entità “sforante”. Torniamo all’emozione “convogliata”. Siamo così approdati alla fotografia a corredo di questo brano. Mattina presto, marcato controluce, atmosfera di brumosa ancorchè grumosa etericità. Nuvole basse sfilacciate vagano.
L’occhio individua un alto casolare incalzato dal disco solare, che a sua volta è blandamente osteggiato dalle umide cortine fumogene. L’occhio lo agogna, quel casolare lì. Scatena un nebuloso sostrato di composite reminescenze. Vorrebbe raggiungerlo. E lo raggiunge, mercé focale quattrocento millimetri su formato Leica. E la luce, come la trattiamo? “We have to tame light”, parafrasando Eco?
Vogliamo cedere alla violenza indifferenziata oppure addomesticarla? Una terza via, mai esistesse. Conservare il sapore della violazione, ma restituire la percezione di cosa passata attraverso un percorso individuale. Ecco allora serbata la cromia languidamente malata del momento, la veemenza della luce che penetra ma anche soffonde. Ecco, soffonde. Avvolge, slabbra, diffonde.
È giunto il momento di volgersi alla parte destra dell’istogramma. Voler fare all’interno di sapere cosa fare. Non dimenticare un codice, ma subordinarlo all’esistente.
Trattare i mezzi non da fini, ma senza dimenticare che è la consapevolezza a generare libertà.
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Claudio Trezzani
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