Raffaello & Kertész

Raffaello, nella sua Scuola di Atene, ha dipinto Kertész.

Che bestialità è mai questa?

Giorni fa riascoltavo Federico Zeri.

Faceva notare che nel summenzionato affresco vi è una impareggiabile varietà di posture, espressioni, indumenti.

Ciascuna figura esprime una sua unicità, ed è notevole esserci riusciti con un cospicuo numero di soggetti.

Sapete, in “La benedizione dell’eclettismo” – anche lì parlavo di Kertész – avevo asserito che tutti influenzano tutti.

Raffaello non si sottrae al fenomeno, e i critici si sono peritati di via via accostargli Perugino, Piero della

Francesca e Michelangelo.

Capirete, quest’ultimo Raf lo incrociava per strada.

E anche Raf cambia.

Evolve, il termine è più impegnativo.

Subisce influenze.

Subisce? Sublima.

Non starò a ricitare Eliot, come feci nel summentovato articolo.

Ma è una virtuosa battaglia tra ciò che si ha dentro ed il solletico che gli fa quanto sta fuori.

Torniamo alle figure di Raf.

L’involucro è di vaporosa sostanza, sapete che mi piacciono gli ossimori.

Gli aerei drappeggi delle vesti conferiscono una levità non immemore del peso.

Rivestono spessa carne che non disdegna il volo.

Ciascuna sagoma esprime un dinamismo in sè compiuto, ma non alieno da dialogo.

Ciascuna vicina, coesa, interdipendente, ma potrebbe cantare solinga, come nelle carducciane erme alture.

Ieratica eppur corporea.

Cosa accomuna i soggetti?

Una raffaelliana tersità, la definizione è mia.

È una peculiare qualità di luce e colore che attraversa la produzione di Raf.

Fosse un obiettivo sarebbe un Nikkor 300 mm f2,8.

Lo stesso apollineo nitore, che conosce il dionisiaco ma se ne sbarazza con disinvolta, noncurante determinazione.

Ma è una condizione dell’animo, questa qui.

I personaggi della Scuola di Atene guardano come abitassero in cima ad un grattacielo, ad attutire il rumore di fondo.

Vedono meglio da lì, perché riconoscono gli intrecci.

Sono ultramondani perché sanno trattare il mondano, questi personaggi qui.

Conoscono i contorni della letteralità, ma la sanno trasfigurare.

Siamo arrivati ad André Kertész.

Uomo o donna che sia, ciascuna di queste figure è André Kertész.

L’ André che passa da una sedia ad una strada, da una scala ad una forchetta.

Che giostra con le cose come persone, e con le persone come cose.

Che ha una tavolozza chilometrica, senza allontanarsi da sè.

Sono tutti aristocraticamente intrisi d’Empireo, gli André Kertész che dipinge Raffaello.

Sanno che esprimono altro, oltre alla condizione apparente.

Ciò lì proietta a distanza, senza rinnegare l’hic et nunc.

Sono tanti, gli André Kertész che Raffaello ha raffigurato nella sua Scuola di Atene.

Perché Kertész è tante cose racchiuse in una.

Realismo simbolico, è stato detto di André.

Se ne va per il mondo, André, sbalzando in ogni cielo la raffaelliana tersità.

Quel luminoso nitore che circonfonde l’astrazione.

 

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Claudio Trezzani

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