Può una otturazione generare texture?

Prossimamente m’occuperò di Jason Kummerfeldt. 

È un fotografo che predilige la Portra 400 ASA, e d’essa caricare fotocamere dalla mezzo formato al grande.

Dice Jason: scatto a pellicola perché amo la texture.

Già, la texture.

S’infoltisce la schiera digitale di coloro che la mettono dopo.

Un abominio, talora.

Il titolo di questo articolo, ora.

Tra il criptico ed il gergale, si direbbe.

Ma non potevo variare: “Può il tempo generare texture?”

Scritto così, il dito – non più penna – sarebbe stato quello di un resuscitato Marchese de La Palisse.

Perché lo sanno tutti che il tempo genera texture – la chiamano “patina” – per antonomasia.

No, qui è l’otturazione che genera texture.

E non c’entra il dentista.

Neppure il segnale se ne è incaricato: siamo alla sensibilità nominale, il file è intrinsecamente pulito.

La parola demiurgica – magica, suona lezioso – è: un quarantesimo di secondo.

È questo il tempo d’otturazione che genera la texture.

La neve precipita più veloce della finestra temporale spalancata dalle tendine, ed il risultato è una trama coreografica.

Sì, dal greco κορεια, danza.

La neve resa filamento danza con il sembiante intrattato (ciò che era visibile senza la mediazione della fotocamera) componendo un arazzo postumo.

Sì, un arazzo postumo.

Non abbiamo fatto niente, eppure la texture è risultata da una interpretazione neutra.

Sì, lo so che “interpretazione neutra”è un ossimoro.

Perché o si lascia inalterato, o si fa.

Qui ha fatto la macchina.

Sì, sospettavo brigasse.

Ma l’alchimia è sua.

A noi, cullarvicisi.

 

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Claudio Trezzani

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