Psicologia del vedere

Una celebre scrittrice inglese, etologa, citava il caso di un bambino rapito in culla da uno scimpanzé per essere mangiato.

E aggiungeva: se per noi umani l’episodio rappresenta una raccapricciante tragedia, per uno scimpanzé mangiare carne umana o di un babbuino non fa alcuna differenza.

Intendeva dire: quel primate occupa una determinata posizione nella catena alimentare, e cibarsi di esseri soggiogabili attiene a mera sopravvivenza.

La scrittrice, con l’esortarci a contestualizzare e relativizzare, voleva metterci in guardia dalla inappropriatezza di antropomorfizzare.

Attingiamo ancora al pregevole serbatoio di scrittrici inglesi, questa volta pescando una fine giallista.

Ella è maestra di un altro tipo di antropomorfizzazione: attribuire sentimenti umani a fenomeni naturali, allo scopo di “colorare lo sfondo” della narrazione.

Siamo così passati da un difetto di giudizio (incapacità di assumere parametri di valutazione esterni a sè) a un uso metaforico con finalità artistica.

Del resto la tendenza umana a correlarsi a sè stesso per interpretare l’esterno a sè è stato ampiamente studiato.

Se da un lato rappresenta una fase della crescita (è cioè un processo ontogenetico), più in generale afferisce alla tendenza umana di accendere mentalmente elaborazioni inferenziali induttive.

Sappiamo  che la psichiatria ha ben sondato l’esperienza empirica di sottoporre a soggetti l’interpretazione di forme, ma anche che la “fuga imnaginifica” può operare a livello ludico.

Chi non ha mai visto un volto in una nuvola o in una roccia?

Vari studiosi si sono cimentati anche nell’esame della tendenza ad antropomorfizzare figure geometriche, ma è precisamente a questo punto che la progressione logica prevede una decisa virata. Il brusco passaggio avviene considerando il ruolo dei grafismi in fotografia.

Cos’è un grafismo?

La tendenza – dell’artefice come del fruitore – a percepire in senso astratto la trama preponderante in una immagine. È uno stadio in cui il valutante pensa: “so cos’è ma non me ne curo”.

Se l’incipit della considerazione non è determinante (l’intelligibilità del significato letterale, della primigenia funzione può avvenire oppure no), la sua conclusione è decisiva. I due esempi fotografici allegati a questo articolo chiariranno queste asserzioni.

Per i seguaci di Bacco, abbiamo una interpretazione “dolce” del concetto di grafismo (gli alberi) ed una “secca” (le boe in acqua).

Cosa ci fa ritenere che queste due fotografie abbiano un sapore grafico? Non solo l’icastica nettezza del disegno.

Concorrono alla classificatoria percezione anche altri fattori. L’assenza di elementi di disturbo che apportano una pulizia formale funzionale alla focalizzazione sensoriale.

Ed anche la parzialità stessa nello sviluppo dellla trama. Chiarisco con un ulteriore esempio: fotografando una porta istoriata non otterremo un grafismo bensì una … porta istoriata.

Se invece isoliamo una porzione della stessa porta e la accostiamo al muro, quello potrebbe essere un grafismo.

E se isoliamo una parte di quello stesso muro nel punto in cui campeggia rilevata una screpolatura d’intonaco, l’immagine potrebbe contenere un sublime grafismo.

Dunque il grafismo si nutre di parzialità e di dialogo.

Abbisogna di una parcità generale di dettaglio ma non disdegna sobrie relazioni.

La fotografia di per sè esclude la totalità, per come inquadrare è scegliere, ma parzializzando un oggetto noto ci si spinge più in là: si induce il fruitore a rinunciare consapevolmente all’interpretazione letterale. In favore di quale altra interpretazione? Anche nessuna.

Questa risposta può apparire sorprendente ma costituisce invece il cardine di questo brano: diversamente da talune forme di antropomorfizzazione, in questo caso il cervello umano può decidere per una “soffusa abdicazione” rispetto al processo identificatorio: si lascia indietro allo stesso tempo il “cos’è/cos’era” e il “cosa sarà”: gli alberi non sono più alberi ma un insieme di segni in cui cullarsi scevri da ansie codificatorie; le boe in acqua non sono più oggetti funzionali ma neppur veicolo di attribuzione alternativa: semplicemente una forma in cui fluidamente tuffarsi.

Risiede qui il fascino di suscitare tali fluttuanti processi mentali: non vi è né partenza né arrivo, bensì una dolce onirica oscillazione.

 

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Claudio Trezzani

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