Partecipazione & Contribuzione

Monumenti – più confessionali che civili – notturnamente illuminati: la situazione è assai variegata e l’avevo esaminata in un articolo che riguardava la ritrazione dronuale.

In quel caso si trattava di andare a cogliere – in posizione aerea e ravvicinata – singoli particolari architettonici, e si rilevava come la distribuzione della luce fosse assai parcellizzata e non del tutto direttamente proporzionale all’importanza del sito.

In questo brano invece si prende in considerazione una configurazione in cui il manufatto sia omogeneamente illuminato e si staglia a mo’ di faro nell’attorniante oscurità. Ciò pone una serie di interrogativi di diversa natura.

Dal momento che l’illuminazione non è stata predisposta dal fotografo, è lecito “copiare l’esistente” semplicemente inquadrandolo? Non si tratta forse di soggetto che “parla da sè” in quanto da altri (i collocatori dell’illuminazione) evidenziato?

Può esistere un apporto personale del fotografo, oppure la situazione è analoga a quella di un dipinto in una pinacoteca, ove la cornice stessa definisce una scelta già operata? Poco fa ho usato l’aggettivo “lecito”. Con esso intendevo: interessante in quanto significativo. “Significativo” ha – nell’etimologia latina – a che fare con il sostantivo “signum”, segno.

Dunque: se l’inquadratura è già definita dal contesto (un oggetto luminoso che ha per netto confine l’esterna neritudine) al fotografo più che inquadrare non resta che definire il rapporto d’ingrandimento (includere una maggiore o minore “cornice” di impersonale oscurità). Ovvero: al fotografo non è stato dato affiancare il signum oggetto di ritrazione con il signum proprio (il taglio inquadratorio, una scelta personale che non si limiti a definire quanto grande debba essere l’oggetto nel fotogramma). Certo, sopravvive l’istanza documentaria: si mostra come era quel luogo in quel momento, e non si manca, con il solo fatto di riprodurre, di sottolineare il fascino intrinseco di quella particolare situazione illuminatoria. Si può fare di più?

Non molto, ma diversificatamente, nelle tre fotografie a corredo. In quella della chiesa romanica si è scelto di accentuare il contrasto tonale: l’edificio fluttua in mezzo ad una assenza di luce che ne suggerisce avulsità, deradicazione. Nel caso della torre civile si introduce l’elemento del cielo, in procinto di definirsi nella cosiddetta ora blu”: funge da contraltare cromatico e definisce spazialmente: la sua collocazione in altura non discende meramente dalla sua posizione nell’inquadratura, ma si giova del signum rappresentato dalla riconoscibilità del poggio in quanto tale. Ma è nella fotografia che accostati due templi barocchi che “si è fatto di più”: semplicemente, li si è accostati.

Con ciò intendendo: i due edifici sorgono l’uno in pianura e l’altro in collina, a distanze e piani diversi. Visti dalla strada principale, non presentano una reciproca relazione geometrica. Cosa ha fatto allora il fotografo? È andato per campi sino a che non li ha “allineati”.

Ha cioè cercato e trovato una relazione che si situa unica tra una moltitudine assai più vasta di limitrofi scollegamenti. Vi è si l’orrenda deturpazione consistente nell’ineludibile porzione di albero che nasconde una porzione di facciata, ma ciò rappresenta una diminutio – in questo caso: un nocumento alla pulizia formale – dopo che  un signum era già stato instaurato: la relazione geometrica tra le parti ottenuta dal fotografo mediante suo posizionamento.

Così, da un solo signum – il contenuto dell’oggetto – che rende insignificante la partecipazione, il contributo del fotografo, si è approdati ad una timida addizione del signum personale, ovvero il taglio conferito dal ritraente.

Niente di trasmutante, ma la fotografia si nutre anche di apparenti marginalità.

 

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Claudio Trezzani

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