O lunghe, o niente

C’è un celeberrimo dipinto – The Fighting Temeraire –  di Turner, a Londra.

Il critico Matthew Morgan ha calcolato che l’ombra del vascello raffigurato è sproporzionata rispetto all’ombra del rimorchiatore che lo traina.

Sproporzionata, nel senso di non aderente al reale, alle dimensioni relative dei due natanti.

Una distorsione ai fini del linguaggio, eddunque.

L’interpretazione dell’autore si volge alla valenza metaforica dei due oggetti, al simbolico passaggio di epoche (il rimorchiatore è a vapore).

Deforma così la realtà per esprimere un concetto, quasi la scura proiezione in acqua fosse un lapsus linguae delle due imbarcazioni, rese capaci di pensiero e parola.

La scura proiezione, le ombre.

Già, le ombre.

Circa esse, in Fotografia sono draconiano, manicheo: o niente, o lunghe.

Meglio niente, onde non deturpare l’inquadratura con elementi di disturbo che nuocciono alla pulizia formale.

Se lunghe, quantomeno caratterizzano la composizione, apportando effetti ora grotteschi ora graficamente pregnanti.

Già, lunghe.

Qui torna la pittura, e nella persona di De Chirico.

Ombre lunghe, e talora non corrispondenti a ciò che riflettono in modi arditi, scollegati, andando ben oltre l’esempio di Turner.

Persino la fumettistica ha adottato l’effetto: ombre che irridono il soggetto, ombre operanti in autonomia.

Ombre, le caverne di Platone.

No, lasciamo stare, ho già citato in precedenti articoli il famoso mito della filosofia antica.

Sapete, giorni fa mi sono imbattuto in un brano letterario – era un newyorchese a scrivere – che citava il lemma giapponese chinmoku, asserendo che il termine significava ombra, oltre a silenzio.

Definizione generica, ho inteso saperne di più.

Ho chiesto a Ryuichi Watanabe, che è stato profondo.

Mi ha spiegato che la parola è composta da due ideogrammi, chin e moku.

Essi hanno ciascuno significato in sé, nonchè quello complessivo, cui ci si riferisce.

Chin è il più sfaccettato, con sfumature che convergono attorno un senso di discesa in abissi.

Moku è ciò che traina l’espressione verso una astensione attiva dal suono.

Attiva, ovvero volontaria:

Si potrebbe parlare, non lo si fa a bella posta.

E qui Ryuichi m’illustra che una frase estesa in proposito del suo nativo idioma – chin-moku ha kin – ha qualcosa a che fare con il siciliano “l’arte di tacere è d’oro”.

E acutamente aggiunge: “La sensazione di questa parola composta crea un’idea di oscurità (omissis) non per il significato proprio ma in conseguenza della sensibilità di chi la utilizza”.

Ecco, la sensibilità di chi la utilizza.

Cose esistono, persone le ritraggono, altre persone guardano.

Se a riguardo delle parole i semiologi si sono accapigliati attorno concetti quali significato, significante, significazione, con le immagini la dilatazione proiettiva è proteiforme.

Se la parola veicola un concetto – dunque, la somma di una convenzione e di una percezione – una fotografia è ad un tempo prepotente e deformabile.

Ad un tempo prepotente e deformabile perché se l’evidenza del rappresentato non può essere altro che univoca nel suo essere visibile – la cosa è quella, sta lì, che la si riconosca o no è definita dalla forma, inscalfibile da travisamenti materici – e con ciò prepotente, è anche deformabile perchè s’offre alle sensazioni che suscita individualmente.

Ecco, la Fotografia: tutto fluttua – nella mente di chi guarda – anche se la composizione è per l’eternità fissata.

 

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Claudio Trezzani

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