Mettersi davanti e scattare.
Questo indurrebbe rinunciare.
Ciò in quanto la mera “brutale” ritrazione frontale di un oggetto pare non intrinsecamente recare valore aggiunto, salvo si tratti di una riproduzione di un’opera d’arte su incarico museale, nel qual caso si apprezza l’alta artigianalità di chi è specializzato nel misurarsi con siffatto tipo di commissione.
Vale anche per le montagne.
Trovarne una e fotografarla può non sortire dissimile effetto di quanto era a portata del visus di chiunque si trovasse lì al momento.
E i droni come si pongono in tali situazioni?
Sapete, il vantaggio è rimanere ortogonali grazie alla facoltà di accedere a postazioni di ripresa in quota, diversamente inattingibili.
Ma da terra il problema dell’indesiderata inclinazione può essere in certa misura risolta con l’adozione di un obiettivo decentrabile, oltre al fatto che il fenomeno della parallasse è meno evidente all’aumentare della distanza, a parità di dimensioni e focali.
Perché, allora, fotografare lo stesso montagne con droni?
Perché esiste la metereologia e la postoproduzione.
Rimandando la prima ad altre trattazioni, m’occupo qui della seconda.
E qui entra decisamente in gioco l’istanza qualitativa.
Istanza qualitativa relativa alla malleabilità del materiale acquisibile.
Malleabilità del materiale acquisibile – il file digitale – che è strettamente legata – sopra altri aspetti, intendo – alla dimensione della superficie sensibile del supporto di cattura e al formato digitale del ricavato.
Fortunatamente – ma siamo ancora lontani dall’ottimalità, se paragonata a quanto ottenibile con dispositivi a brandizione terrestre – si sta diffondendo anche tra droni di fascia medio/bassa l’adozione di sensori da un pollice.
Quanto al summentovato formato digitale del ricavato, la disponibilità del formato RAW è ormai diffuso in misura pressoché generalizzata.
Questi due elementi – diversamente non è dato “cavare sangue dalle rape”, nel senso che un RAW da un sensore più piccolo trae il meglio, ma il meglio dal poco – remano a favore della lavorabilità.
E la lavorabilità rende possibile ricollegarsi al sunnominato accenno della postproduzione.
Postproduzione che serve a personalizzare senza tradire.
Questo consente esplicitare la faccenda del valere o meno la pena ritrarre montagne frontalmente.
Se la fotografia fatta alla montagna abbiamo in mente di convertire – ad esempio – in scala di grigi e poi struggerci su quanto vogliamo aprire le ombre e di quale timbro tonale conferire, ecco che si è verificata una azione che intende differenziare la percezione visiva da una fruizione non mediata (il nudo occhio di chi era lì).
Certo, non è da trascurare la nota facilità d’accesso che il drone ha: le due fotografie a corredo di questo brano sono state realizzate con l’operatore a terra nella medesima posizione, e con nessun altro mezzo si sarebbe potuto avere in primo piano i due scalatori sotto la croce che nell’immagine distanziata s’intravede appena in sommità.
Del resto entro questo filmato già altrove citato con differente finalità si nota il dispiegarsi di un gesto nella medesima situazione, e ciò ci porta a considerare come il movimento muti l’approccio al veduto.
Ovvero: se fotografare una montagna staticamente può non risultare interessante, ciò che su essa avviene nel corso di un ravvicinato tempo documentato in continuum può apportare quello stesso interesse diversamente assente.
E ciò è necessario.
Lo è perché se catturare l’azione è lavoro dei videografi, essi per converso scontano una minore qualità di riproduzione dei loro colleghi fotografi, a parità di dispositivo.
Il formato raw, infatti – anche se nei droni imperversa il codec .dng, mediamente meno accurato dei formati proprietari – consente davvero di estrarre il meglio dal catturato.
Il formato video impostabile da quegli stessi droni, invece, risente pesantemente della compressione.
In assenza della facoltà di registrare in RAW cinematografico, in Pro Res, o comunque con elevati rapporti di sottocrominanza e di profondità in bit, l’unica facoltà residua rimane di giostrare con parametri meno decisivi, come l’H265 meno infedele dell’H264, o il .MOV. giusto un poco meno compresso dell’.MPG.
Oltre ovviamente ad avvalersi – ove presente – della disponibilità di selezione del diaframma e diregolazioni specifiche, ma ciò non sigla una diversità con quanto ugualmente ottenibile in modalità fotografica.
Insomma, è sempre una questione del poter fare.
Già, poter fare.
La volontà del ritraente per dispiegarsi appieno deve essere messa in grado d’incontrare particolarità tecniche necessarie allo scopo.
Con lo scopo sempre situandosi attorno alll’intento di linguaggio.
In assenza del quale abbiamo sì entusiasmanti voli, ma niente al servizio dell’espressione.
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Claudio Trezzani
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