Non solo paramnesie

Fotografare è gettare ponti.

Ponti tra l’esperienza visiva di chi guarda l’immagine e l’esperienza pregressa di vita di costui.

Chi guarda riconosce o non riconosce la letteralità del rappresentato, indi rapporta il veduto a ciò che sa e ciò che ha esperimentato.

Già, sapere e sperimentare.

Se quest’ultimo verbo è più strettamente legato alla sfera emotiva, attingere al personale sapere non necessariamente inerisce una dimensione di vigoroso summovimento psichico.

Se a Proust l’inghiottire una petite madeleine dischiude un mondo interiore appartenuto alla sua infanzia, non sempre il potere evocativo di una fotografia coinvolge intensamente l’emisfero sinistro del cervello.

E non sempre la sensazione di deja vu va annoverata nell’ambito delle paramnesie, con la connotazione psichiatrica che la definizione comporta.

Le quattro fotografie a corredo di questo brano illustrano il concetto.

Esse sono tratti da filmati realizzati dal team di Alex Dykes, uno dei recensori di automobili che più stimo al mondo.

Automobili che visivamente parlano traverso stilemi e canoni non meno codificati che in altri ambiti espressivi.

In tal senso le differenze tra costruttori sono sì attinenti a ciò che essi appellano family feeling (ovvero riconoscibilità di marca) ma chi ne disegna le forme (sia esterne che interne) è sempre più “mobile” quanto a relazione tra luogo e temperie di nascita e luogo e temperie di occupazione.

Abbiamo così il volante di una automobile tedesca che invece è …giapponese.

Giapponese?

No, niente a che vedere con la nazionalità del fornitore o i natali dello stilista.

Semplicemente, lo scuro insieme delle tre razze ricorda la cartoonistica uniforme – sorta di tuta spaziale – che caratterizzava una celeberrima serie nipponica degli anni ’70.

La seconda fotografia ritrae altresì una vettura che giapponese lo è davvero, quanto a produttore.

E se la griglia del radiatore assai pronunciata e tipicamente conformata rimanda al family feeling del marchio, lo sviluppo dei fari anteriori rieccheggia la convenzionale conformazione “ad occhi a mandorla” che si suole attribuire alle persone dai tratti asiatici.

Ma la convenzione abbraccia stilemi che si ripercuotono semitrasfigurati – perché il loro essere astratti è contaminato con la diffusa riperpetuazione del motivo – su altre parti dell’automobili. Senza menzionare il logo – che richiederebbe una trattazione a parte per come s’interfaccia a ciò cui è di volta in volta abbinato – possiamo osservare questa ripercussione sul taglio degli specchietti retrovisori e delle pseudoappendici refrigeranti.

Poi abbiamo la terza e quarta immagine, che evidenziano due diversi cerchioni di ruota disponibili per lo stesso modello di produzione americana.

Alex Dykey, quando li compara, attribuisce la sua preferenza a quelli della vettura dipinta in giallo con un tono che pare alludere al terreno dell’oggettività.

Perché Alex ne è così sicuro?

Perché ha filtrato il dato visivo attraverso l’assimilazione di preesistenti canoni, i quali a loro volta sono divenuti tali poiché hanno incontrato un gradimento – se non generalizzato – almeno preponderante.

E si tratta di pure geometrie su di un comune tema, la ruota ospitante.

Pertanto, non solo siamo oltre la funzione (questo aspetto richiederebbe una disanima ben più ampia), ma anche oltre la specifica applicazione.

Oltre la specifica applicazione in quanto questo sistema di segmenti e linee curve non fa che riguardare il modo in cui un essere umano legge il visibile, indipendentemente dal contenuto dall’intelletto sviscerabile.

Tutto ciò che vediamo è un insieme di linee curve e rette, anche un paesaggio “naturale” non si sottrae a questa classificazione.

E nemmeno importa se gli elementi compositivi del cerchione teso e non arrotondato singolarmente ricordino forcine per capelli o qualsiasi altra cosa: è l’andamento generale – ma correlato – che parla al nostro occhio come un linguaggio, una musica, la metrica di una poesia, un plastico manufatto artistico.

Come già detto, siamo più nell’ambito del sapere traslato che non dell’emotività scatenata da un evento:
sia razionalizzando il fenomeno sia che esso ci giunga sotto forma di impressione, non abbiamo fatto altro che

individuare un codice sopra – o sotto – il contenuto palese.

Un codice, ovvero un andamento preesistente e rideclinabile con infinite variazioni.

In sintesi, siamo al cospetto della circolarità delle percezioni.

Percezioni ad un tempo individuali e collettive: dalla matrice comune – dai dati di paragone attinenti il personale scibile d’ognuno, quando si rispecchia in quello altrui – si diparte la personale coniugazione, che si nutre del vissuto come si abbevera all’univoca inclinazione (passato + carattere + disposizione contingente).

Così, ogni fotografia non esprime mai esclusivamente sé stessa: tralasciando l’ovvietà che ciascuno ne ha peculiare variabile coglizione, essa reca sempre un piano di lettura che trascende – ma senza risultarne alieno – le coordinate del sembiante fattuale per situarsi in quell’intimo luogo che ciascuno serba in sé.

Intimo, ma non per questo scisso dal patrimonio universale di conoscenza.

Ecco, sì, come scrivevo nell’incipit di questo articolo: fotografare è gettare ponti.

Ponti che ognuno può percorrere, ma ciascuno con il suo passo.

 

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Claudio Trezzani

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