Dapprima una avvertenza legale.
Ciascuno di Voi venticinque – manzonianamente – lettori di queste righe prima di procedere oltre dovrà firmare una liberatoria. Essa è disponibile presso la sede di NEWoldcamera, e passando in negozio per ottemperare, vi consiglio vivamente di indossare mascherina e guanti (Ryuichi è stato, oltre che valente cantante lirico, anche campione mondiale di sumo, prima della dieta: non vi conviene farlo arrabbiare).
Il testo della liberatoria recita:
“Con la presente mi impegno a non illustrare, verbalmente o per iscritto, il contenuto della fotografia allegata all’articolo di CT a possessori di action cameras o a giornalisti del settore automobilistico: venendo essi a sapere che l’occhio umano riflette una immagine di tipo “fish-eye” (ndr: nella pupilla ritratta dalla fotografia si scorge la porta/finestra dello studio del fotografo, con veduta verso un antistante giardino pubblico) potrebbero diabolicamente perseverare nel restituire al mondo immagini deformate”.
Avete firmato?
Bene, possiamo ora entrare in argomento.
Che afferisce l’occhio umano.
Da vicino, ma non così vicino.
Sapete, c’è una leggenda nel mondo del cinema.
Quasi una leggenda, perché una volta corretta risponde a verità.
Si dice che un bravo operatore addetto alla focheggiatura sia solito domandare al direttore della fotografia od al regista quale occhio vogliono risulti nitido.
In realtà i videografi dispongono sì anche di lenti dotati di generosa apertura relativa, ma esse sono interfacciate a supporti sensibili (pellicola o sensore) di superficie non così estesa da permettere una profondità di campo esigua quel tanto che suggerisce l’episodio dell’operatore.
Tale richiesta va così considerata veritiera solo se riferita a situazioni in cui il soggetto si discosti – anche di poco – dal parallelismo rispetto alla fotocamera.
Siamo dunque approdati al cuore della trattazione.
La sfocatura selettiva nella ritrattistica.
Nella ritrattistica, non nella moda.
Un bravo fotografo di quest’ultimo settore vi potrà riferire che – avendo esigenza di rendere intellegibile ogni porzione del vestito della modella – in studio con una medio formato tenderà a non impostare valori minori di f11.
A questo diaframma il medio formato non risente ancora soverchiamente della diffrazione, e d’altro canto una acconcia illuminazione concorre a permettere tempi d’otturazione compatibili con la capacità umana di relativa immobilità.
A noi invece, qui, interessa l’aspetto umano, non commerciale.
Ricercatori della svedese Orebro University hanno fatto i postlombrosiani nel riscontrare corrispondenza tra la struttura dell’iride (hanno preso in considerazione le cripte, fili che irradiano le pupille) e determinati comportamenti sociali, a seconda del tipo di matrice complessiva del disegno.
Sarebbe così scientificamente dimostrato il noto motto che gli occhi sono lo specchio dell’anima/animo.
Sia come sia, essi esprimono un coinvolgente magnetismo.
Anche per questo noi fotografi siamo portati a situare lì la focheggiatura, e a questo proposito la regola di concentrarsi sull’occhio più vicino alla fotocamera è sempre una utile indicazione.
Quanto localizzata può essere questa preferenza?
Confesso d’annoverarmi tra i feticisti, od almeno dannunziani.
Una volta vagheggiavo il celeberrimo Zeiss Planar 80 mm f2 disponibile sulla Contax 645, mentre ora andrei a piedi sino a Bologna per il Fujinon 110 mm f2 recentemente approntato per la gamma di mirroless medio formato
Fuji GFX 100 e 50 R/S.
Attenzione, però.
Non è automatico concludere che a diaframma più aperto corrisponde una sfocatura più accentuata attorno all’occhio.
Ciò mi fornisce l’opportunità di chiarire un concetto – che trova applicazione in una situazione pratica esistente – menzionato non così spesso come sarebbe necessario, e che pertanto ho riscontrato generare confusione tra gli appassionati.
Sempre il riferimento al volto umano, è importante stabilire quale è la minima distanza di messa a fuoco che l’obiettivo consente.
Avete il classico combo Hasselblad CM con il Planar 80 mm f2,8?
Bene, sappiate che con un moderno macro standard su formato Leica si può sfocare di più.
Come è possibile?
Tutta una generazione di obiettivi standard o da ritratto situava – ma la tendenza, seppur in misura minore, permane – la minima distanza di messa a fuoco tra gli ottanta centimetri e il metro.
Persino il 105 mm f 2,4 che sono solito abbinare alla Pentax 6 X 7 (le premesse teoriche sembrerebbero assai promettenti ai fautori del minor fuoco possibile) non sfugge a questa caratteristica funzionale.
Abbiamo poc’anzi menzionato il classico Planar 80mm f2,8 sposato a svedese. Ebbene, una soluzione esiste.
Una sua versione montata su Rolleiflex SL66 consente un avvicinamento superiore, mercé presenza di soffietto (che vi è anche su alcuni simili modelli medio formato della Mamiya, ma senza il conforto di una ampia apertura del diaframma, per focali paragonabili).
La situazione generale, tuttavia, è quella summenzionata.
Che oltre ad affondare le ragioni in presupposti progettuali, presenta caratteri di tecnica opportunità, beninteso.
Avvicinarsi molto, infatti, altera la percezione di naturalità delle fattezze umane.
Il che, per converso, non toglie che un piano di ritrazione così ravvicinato da includere i soli occhi abbia un suo specifico senso e suggestione.
Giova comunque specificare che la nostra attenzione si è rivolta a casi in cui il volto umano rappresenta il solo soggetto nell’inquadratura: al cospetto di situazioni articolate andrebbe introdotto un altro fattore: il rapporto di reciproca distanza tra oggetti eventualmente presenti.
Ciò considerato, sappiate che anche con un modesto zoom 18 55 mm f 3,5 5,6 su APS C è possibile ottenere una pronunciata sfocatura dello sfondo, a condizione che il soggetto sia posto alla minima distanza di messa a fuoco, con alle spalle montagne distanti chilometri.
Ma noi siamo amanti degli occhi specchio dell’anima/animo.
Sappiate allora che, disponendo di strumenti adeguati, il vostro problema potrà essere costituito dal loro rivestimento.
Sì, le ciglia.
Con profondità di campo così ridotte, un piccolo errore può portare ad avere queste a fuoco, anziché l’occhio stesso.
Assimilata la tecnica, resta l’umanità.
Stabilite una relazione empatetica con il soggetto.
Imparare l’arte e metterla da parte, come si dice.
Se l’afflato è sincero, la fotografia parlerà.
All rights reserved
Claudio Trezzani
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