Non solo lingua (videografia).

Il video allegato rappresenta un assioma di quanto da tempo ho più generalmente verificato: l’autoironia va di pari passo con l’autorevolezza. Scherza serenamente chi non nutre complessi d’inferiorità verso la serietà del suo agire. Così in questo filmato Ryuichi Watanabe si esibisce in una virtuosistica contorsione della lingua, ma subito dopo torna al competente esame della fotocamera che brandeggia. Giova altresì sottolineare che il filmato in oggetto è stato realizzato con un rivoluzionario tipo di stativo lì disponibile: è costituito da un tavolino sormontato da tre libri, uno collocato posteriormente e l’altro davanti.

La celia termina qui.

Perché il filmato è prodotto ad illustrazione di un argomento che avevo già trattato agli inizi di questa rubrica: gli effetti della compressione sui filmati prodotti da fotocamere.

L’evoluzione del mercato m’induce a proseguire nella trattazione.

Cruciale – in quanto indizio indiretto della compressione – è il concetto di bit/rate: esso esprime la quantità di dati che transita nell’unità di tempo.

Questo filmato è stato realizzato con una Nikon D850 con il più elevato bit/rate disponibile sul modello: 144 Mb ogni secondo. Esso rappresenta un rimarchevole miglioramento rispetto al passato: ancora la D800 non si spingeva al di là dei 30/Mb s. In Canon, la 5D Mark IV arriva sino ai 500/Mb s. Si badi: sebbene tali valori si ottengano in concomitanza con i più elevati valori di risoluzione, essa rappresenta solo un fattore concorrente, non coincidente. Alla determinazione del bit/rate concorrono infatti diversi fattori che esprimono un peso specifico nel gravare sul flusso di lavoro, il cui ammontare totale  è dato dalla loro somma.

Dunque più il valore in bit/rate è elevato, minore è la compressione del filmato: si sono sacrificati meno elementi. Tenendo sempre presente il concetto di “pesantezza” del flusso di dati, altri fattori sono costituiti dalla Babele di codec e trattamenti: H264, il più recente ed efficiente H265 (non ancora compatibile in esportazione con tutti i software di postproduzione), procedura progressiva od interlacciata, compressione del singolo fotogramma o di una serie, formati MOV o MPG. Ciascuno di essi è apportatore di un diverso “peso” all’interno del flusso dati, sì da modificare il valore totale di bit/rate a parità di altri fattori.

Un altro indizio della compressione è il sottocampionamento di crominanza: nella tripartizione numerale che lo esprime quanto più elevato è il numero nei fattori tanto minore è la compressione (per esempio un filmato in 4:2:2 è meno compresso di uno in 4:2:0: si rimanda ad altre trattazioni per un approfondimento dell’argomento). Perché si è arrivati a questa Babele di fattori e compressioni? In un precedente articolo mi ero diffuso su questo argomento: sottrarrebbe troppo spazio alla presente trattazione ripercorrere quei passi.

Basti qui ricordare che la situazione odierna è il frutto di una mediazione non del tutto riuscita tra un elemento di progresso (la risoluzione) e le mutate esigenze di “stivaggio” del materiale. Ma è possibile avere questo materiale in forma non compressa?

Sicuro, ma con più di una avvertenza. Il modello di drone professionale Dji Inspire, ad esempio, può registrare filmati anche in versione RAW, con un bit/rate che addirittura eccede il terabyte al secondo. Se questo ci dà la misura di come siano altrimenti compressi i filmati se diversamente trattati, pone altresì delle difficoltà. La prima: la gestione al computer del materiale. Il filmato a corredo di questo brano, generato a 144 Mb/s è stato da me trattato con un computer dotato di una RAM totale di 16 GB e di una scheda video di 2 GB. Scorre ancora fluidamente e viene processato in tempi accettabili da Adobe Premiere, ancora di più da DaVinci Resolve: l’anteprima in fase di color grading, però, risulta lontana dall’istantaneità pur ricorrendo ad ogni artifizio possibile in tema di conversione temporanea del file e di coinvolgimento delle risorse di sistema.

Va da se che il trattamento di un file di oltre un terabyte al secondo presupponga invece il più alto livello di allestimento nell’ambito dei computer standalone di Apple, oppure uno stanziamento vicino ai quattromila euro in ambito Windows. Inoltre, per ciò che attiene il magazzinamento del materiale, quanto al già citato modello Dji occorre acquistare una speciale scheda del costo di circa mille euro, mentre in altri casi la registrazione video in formato RAW si ottiene mediante l’uscita HDMI delle fotocamere che ne sono dotate, ma a prezzo dell’abbinamento con costosi registratori esterni dedicati.

 Ne vale la pena, allora?

Purtroppo, si. Ciò in quanto la differenza tra formato compresso e RAW in ambito video è ancora più marcata di quella esistente in ambito fotografico: se in quest’ultima situazione il limite maggiore risiede nel minor margine di lavorabilità postproduzionale, nel caso dei filmati oltre a ciò non è raro assistere allo sgradevole baluginare di artefatti di compressione tanto più vistosi quanto maggiore è stata impostata quest’ultima.

E non si creda che l’attuale proliferare di settaggi in camera cosiddetti “flat” apporti un consistente miglioramento del problema: se è vero che queste configurazioni limitano il danno rispetto a profili più contrastati, il loro estenuato trattamento in postproduzione non fa che evidenziare il vizio ab origine: sono formati non fatti per essere pesantemente rielaborati al computer, stante la loro natura compressa.

Noterete così che complessi algoritmi di regolazione molto ben messi a punto all’interno di prestigiosi programmi mostrano presto la corda se paragonati al loro impiego con materiale meno bistrattato “nativamente”. Dunque, questo è il problema:

1) la compressione mediamente corrompe di più il file video rispetto a quello fotografico

2) porvi rimedio è assai costoso.

Questo è l’altalenante andamento della tecnologia: personalmente benedico sempre istantaneamente e con intenso fervore ogni ogni progresso, ma non sempre esso procede in maniera omogenea ed univoca.

 

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Claudio Trezzani

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