Non solo Hopper

Il fenomeno è particolarmente evidente in politica: ad un oratore può bastare un espediente retorico per infiammare l’uditorio. Cosa è successo?

Non è detto che il contenuto della frase sia stato profondo od arguto: semplicemente, ha rispecchiato i convincimenti degli ascoltatori. Così nella trattatistica: qualcuno afferma di aver altamente apprezzato un dato testo, e poi specifica che lo ritiene una sintesi di “tutto ciò che pensavo sull’argomento”. E in fotografia?

Anche qui, un gioco di rimandi. Le due fotografie a corredo di questo brano denunciano una ispirazione hopperiana: si tratti della ripresa notturna in digitale o di quella analogica (Velvia 50 ASA su rollino 120) avevo in mente quella atmosfera di apparente fissità, di abbacinante straniamento che il pittore statunitense soleva infondere nelle sue opere. Qualcuno ha colto immediatamente il riferimento, qualcun altro no.

Ma questo conta? Connota qualitativamente l’immagine? In altri termini: la riconduzione ad esperienza comune – fattore esogeno – come si rapporta all’intenzione – elemento endogeno – dell’autore?

Il problema è che qui spunta un terzo incomodo: non la visione del fotografo, non il riferimento condiviso, ma una percezione individuale terza. Cosa intendo per “terza”?

Una cosa che ha visto, solo lui, un singolo osservatore. Banalmente accade con foto documentarie: qualcuno può cogliere un particolare che rimanda alla sua esperienza personale.

Ad un livello più profondo, nel contenuto di una fotografia può esserci qualcosa che scatena, come un dolcetto proustiano, le corde di un vissuto. Ecco allora che si assiste ad una fuga oggettuale: chi guarda non pensa più alla foto, ma si volge al ricordo. Si svela così la natura composita, la poliedria visuale della percezione: chi guarda filtra attraverso la sua storia personale. Non conta più, dunque, individuare un riferimento?

Conta, ma non sotto il profilo di caratterizzazione univoca: una fotografia non si esaurisce nel contenere un rimando. L’idea del riferimento del resto è correlata all’impossibilità dell’avulsità che è propria della condizione umana: si fa per ciò che si è, e si è per ciò che ci è dato constatare.

Ergo, il gioco delle citazioni è materia di luce riflessa, buona per lo slittamento del momento creativo ad iniziativa di qualche critico: una fotografia non può non esprimere una esperienza comune, ed allo stesso tempo costituisce un atto individualmente irripetibile.

Se quindi la coglizione di un riferimento pittorico, letterario, o di altra natura comporta un momento di condivisione su terreno comune ma altro, il singolo contenuto di una immagine – pur aperto alla più ampia polisemanticità interpretativa, non vi è contraddizione in questo – rappresenta un unicum in cui la fissazione dell’attimo si salda con il portato dell’autore.

Sono solito solito sostenere che un testo letterario è sempre autobiografico, sia che si dedichi all’invenzione od alla saggistica: la personalità dell’autore trapela sempre.

Così in fotografia.

 

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