Platone nel Parmenide asserisce che è ridicolo ipotizzare l’esistenza dell’idea del fango.
Non mi risulta il filosofo ateniese si sia pronunciato sul fungo.
Wolff Licht ha operato questa apofonia vocalica: non del fango si è occupato, ma del fungo.
Ma non del fango sotto il fungo.
Wolf(f) Licht.
Etimologicamente, un lupo in cerca di luce.
Un predatore bramoso d’illuminare ciò che gl’interessa.
Sapete, ora la tentazione è di virare sul tecnico.
Perché Wolff la fotografia a corredo di questo brano l’ha realizzata con il Meyer Oreston 50 mm f1,8.
Peculiare bokeh, cremoso nonostante le bolle, quel genere di cose.
Ed invece no, respingo la tentazione di soffermarmi lì.
Semmai, aggiungo solo che la minima distanza di fuoco è di soli 33 cm.
Ciò non la rende un’ottica macrofotografica, ma – in abbinamento con una generosa apertura relativa – consente di isolare un soggetto pur in presenza di un attorno strutturato.
Sapete, Wolff abbina una esortazione a questa sua immagine.
Let your little light shine.
Fate risplendere la vostra piccola luce, dice.
E’ una cosa struzzesca ma virtuosa, questa qui.
Perchè, alla maniera dello Struthio Camelus, si cerca un rifugio all’aperto, che è un ossimoro.
Come il grande uccello terricolo mette la testa sotto la sabbia lasciando il corpo vulnerabile, così Wolff finge – espressivamente – che nel bosco il solo oggetto presente sia il singolo fungo.
Io ho scelto te, pare affermare.
Un te che è un pretesto, ma sublime.
Let your little light shine.
Licht – come detto, luce in tedesco – stimola ciascuno a far risplendere la propria light, luce in inglese.
E’ un percorso da dentro a fuori del sé.
La luce che brilla dentro, portarla fuori e trasferirla al fungo.
Io ho scelto te, fungo.
Te fungo, non il fango che sta sotto.
Non le foglie, e neppure gli alberi.
Solo te voglio illuminare.
Ci sei solo tu, quando il dito s’abbassa sull’otturatore.
Come dicono gli psicologi a proposito dell’amore, è uno specchio del sé.
Ciò che arde dentro trasferire a ciò che rifulge fuori.
Ecco, la Fotografia.
Moti d’animo consegnati alla posterità.
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Claudio Trezzani
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