Lo spostamento.
E’ il titolo di questo articolo.
A cosa mi riferisco?
Allo spostamento d’interesse, al ripensamento che ha colto più d’un recensore dopo l’avvento del drone Dji
Mavic 3.
Uno spostamento che è allontanamento in favore del Dji Air 2 S.
Come mai?
La questione è composita, sia in riferimento al materiale che alla prospettiva di chi valuta.
Quanto a quest’ultima istanza, uno dei motivi è purtroppo la relativa sfera di competenza:
chi d’abitudine si occupa di telefonini o action camera semplicemente non è in grado – non possiede la preparazione specifica – di penetrare completamente l’orientamento progettuale ed il comportamento di un Mavic 3.
Ma la maggior parte delle obiezioni sono fondate.
Il prezzo non è estraneo all’equazione: un notevole salto rispetto alla serie 2, pur a fronte di rimarchevoli caratteristiche migliorative e/o aggiuntive.
Che tuttavia non esimono il modello dal potersi definire nè carne nè pesce.
Nè carne nè pesce poiché il piatto è sì succulento, ma non al punto da solleticare del tutto il palato di un professionista.
Sapete, un – pur bravo – autore di video in proposito ha detto che “You don’t buy a Ferrari to go to the grocery store”.
Vero, ma il Mavic 3 non è una Ferrari.
Vedete, a corredo di questo brano ho posto due immagini di droni professionali firmati Dji e Sony.
Ebbene, loro cominciano appena a meritarsi il fregio del Cavallino Rampante.
Ma – tra i prodotti di Maranello – giusto una Portofino, non una 812.
La 812 è invece quel drone in grado di portare per aria una ammiraglia 24 X 36.
Meglio ancora – conosco un fotografo che faceva volare una Zenza Bronica a pellicola, pur nella tenera rudimentalità dei mezzi propri di una passata epoca – una medio formato.
Esagero?
Esaminare singoli aspetti, aiuta.
Sono anch’io convinto che il Dji Air 2 S – ma meritano la massima attenzione i recenti parti Autel – risplende di rinnovata luce, per come costa relativamente poco, nonostante il sensore da un pollice e e varie caratteristiche assai pregevoli.
Ora sono tentato di enuclearne pure le debolezze, ma me ne astengo per concentrarmi su di un singolo fattore.
Vi sarete accorti che molti recensori pongono a diretta comparazione delle sequenze girate in D log con l’Air 2 S e il Mavic 3?
Notate una costante, in questi accostamenti?
Ve la anticipo io: il codec flat del Mavic è più “spinto”, nel senso di una maggiore “piattezza” dei parametri.
Circostanza casuale?
Per niente.
Il concetto è: più un sensore è grande, più è lavorabile.
Un momento, però, prima che Vi precipitiate a brutalizzare i files video del Mavic 3 con qualche Lut estremo acquistato in pacchetto da costruttore terzo: non basta la generosa superficie sensibile del supporto.
Essa non permette di raggiungere lo scopo – la qualità – se non è accompagnato da un trattamento del dato raccolto non soverchiamente compresso.
A tal proposito, Vi suggerisco di non farVi nemmeno abbagliare da un valore in bit rate – peraltro assai importante – superiore ai canonici 100 o 150 MB/s.
Perché – rispetto a questo elemento – si ha vera qualità solo con fattori di sottocampionamento di crominanza a cifre elevate, e con formati Pro Res o “para/RAW” (il vero Raw, nei flussi video, non esiste in pienezza).
Ciò è possibile solo mediante registrazione su schede di memoria speciali.
Il che automaticamente esclude il Mavic 3 da 2200 euro e la sua versione pluriaccessoriata da 2900.
Solo la declinazione Cine reca la summentovata caratteristica, ma la cifra da sborsare supera le quattro migliaia di euro.
Ecco, traverso l’analisi di un solo fattore siamo addivenuti ad esplicitare una progressione logica.
La qual progressione contiene due direzioni verticali opposte: salire ancora, se il destinatario del dispositivo è un professionista; all’occorrenza scendere, qualora il proprio bagaglio cognitivo non sia adeguato alla bisogna.
Ed insomma, tra letteratura e giurisprudenza, è sempre una questione di Mezzi & di Fini.
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Claudio Trezzani
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