Lo spartiacque

Lo spartiacque.

Certo, di distesa liquida, nella fotografia a corredo di questo brano, ve ne è.

Il senso del lemma è metaforico, tuttavia.

Perché qui lo spartiacque è tra visione percepita come aderente al vero e quella che rimanda ad una mediazione od a una ricreazione.

Mediazione? Ricreazione?

Stiamo parlando di visione percepita, dicevo.

L’aspetto concettualmente interessante è che – non solo nello scenario della summentovata immagine, ma anche in ogni situazione che contiene un similare insieme d’elementi – tale distinzione si può fare sin “dal vero”:
primieramente nell’albero si nota come il riflesso – con la sua connotazione d’evanescenza e d'”accartocciamento” nella frammentazione dilatata – pare eccezione al vero, nella misura in cui lo richiama senza coincidere con la scaturigine della proiezione.

Dunque, “prima” di una mediazione – del dispositivo ritraente – o di una ricreazione – la stessa scena reinventata da un pittore – l’occhio umano tende a classificare gli oggetti per specie del visibile, ovvero attribuire diversi tassi di plausibilità – nell’accezione di originarietà non riverberata – in relazione alle condizioni dell’apparizione.

Nel caso di un riflesso, si argomenta che sia “vera” la succitata scaturigine della proiezione, e una “distorsione” del vero la sua riproduzione in acqua.

Quando però s’introduce un elemento di variazione “esterno” (la fotografia, o l’interpretazione di un pittore) il terreno semantico si sposta su di una azione successiva e non sovrapponibile in collimazione.

Qui c’interessa l’istanza fotografica.

Ed il corollario a ciò è: in quali termini la ritrazione fotografica si discosta dall’oggetto originale?

Essa è in bilico tra la neutralità che discende dalla sua supposta imparzialità e il consustanziale ruolo di intervento a posteriori, ontologicamente slegato da ciò che cattura.

E’ allora possibile quantificare i fattori d’estraneità?

Sapete, la fotografia allegata a questo articolo è stata ottenuta con una gloriosa Pentax K 1000 e una pellicola 400 ASA.

Si potrebbe allora accennare alla risoluzione.

Inferiore a quella di una moderna fotocamera digitale, pertanto caratterizzata da una minore capacità di evidenziare i dettagli fini.

E qui si torna alla faccenda dei riflessi: se una cosa specchiata in acqua è “meno vera” di ciò che si specchia perché meno definita, la minore capacità in tal senso dell’analogico rema – poeticamente, però – in questa direzione.

Indi, la patina.

La patina, ovvero la grana di una distesa d’alogenuri d’argento in una sensibilità media.

E qui si ritorna all’aspetto pittorico: come il pittore stende trame materiche per consistenza e modalità d’applicazione, un supporto sensibile che non sia algidamente matematico come un conglomerato di pixel apporta un risultato che ipso facto reca i crismi – o l’illusione di volontarietà – di un intervento interpretativo.

Abbiamo così diversi ed incrementali livelli:

  • la distinzione per specifiche peculiarità che il cervello umano opera sin dalla visione non mediata.
  • la natura mediativa del dispositivo impiegato.
  • la tipologia del dispositivo istesso in funzione del risultato che consente d’ottenere in guisa intrinseca.

Ancora “dopo” questi fattori s’esplica il personale  taglio che l’artefice della ritrazione conferisce.

Ecco, la fotografia: una lirica cavalcata tra la nudità del vero e la struttura del rappresentabile.

 

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Claudio Trezzani

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