Linguaggi e fini

Cosa abbiamo qui?

Una ferreotipia d’anonimo, nonché la celeberrima fotografia di Robert Mapplethorpe.

Quali differenze?

Il bello che che possiamo concentrarci sull’oggetto/soggetto, oppure sulla composizione generale.

Le mani.

Parlano, indubitabilmente.

In un caso esprimono posato dominio, quieta accettazione.

Nell’altro…

Be’, qui occorre tener conto del dialogo.

Del dialogo tra estremità artiale, bastone, teschio, viso.

Non vi fossero questi ulteriori oggetti dialogici, già la mano promanerebbe volitività condita con rapacità.

Ma qui è d’uopo tener conto di relazioni e posizioni.

Una posizione è già una relazione, poiché attribuisce peso.

Poi vi è il seme, dentro o sopra il sembiante.

Il teschio rapportato al volto vivo.

Purtuttavia, possiamo abbandonare tutto ciò per incamminarci verso un taglio affatto differente.

Esso riguarda la Fotografia in generale, con declinazioni peculiari in queste due immagini.

Il ferrotipo si vota alla bidimensionalità: senza null’altro che le mani, mancano indizi di profondità, anche se si potrebbe argomentare che essa è racchiusa nello sviluppo prospettico delle dita.

Con Mapplethorpe l’operazione si fa complessa, ed entusiasmante nel suo essere composita:
potrebbe essere interpretata come un insieme prebrunelleschiano, ove ogni oggetto risulta collocato privo di plasticità interrazionale, lasciando ai simboli il compito di giustapporsi.

Ed invece no, un elemento muta l’equazione.

Sto parlando della sfocatura.

Sì, la faccia non è nitida come l’insieme mano/bastone/teschio.

Concettualmente, una vertigine.

Perché si giostra tra condizioni ora complementari ora contraddittorie.

Bidimensionale, tridimensionale.

Bidimensionale  ed a un tempo tridimensionale.

Bidimensionale con; tridimensionale senza.

Ecco, la Fotografia.

Nella fucina, una congerie d’eterogenee pulsazioni.

L’alchimia preme, è può essere di Celesti Sfere.

 

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Claudio Trezzani

https://www.saatchiart.com/account/artworks/874534

 

 

 

 

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