Molti di voi conosceranno l’opera di Marcello Grassi. È un fotografo che sa fare e sa capire. Parallelamente a realizzare immagini, ne recensisce acutamente d’altrui.
Accade che ogni qualvolta desidera estendere a Facebook le sue riflessioni a proposito di fotografie che non rechino tessile celatura di localizzate porzioni del corpo umano, è costretto ad apporre veli.
Sì, è costretto a farlo.
Se ne astenesse, un algoritmo le eliderebbe.
Si avete capito bene, e converrete che è terribile.
È un ritorno al Concilio di Trento (1545), con il suo triste corredo di drappeggi e foglioline.
Ve ne racconto un’altra.
Anni fa come tanti inserivo mie fotografie in uno spazio apposito presso un prestigioso sito americano. In una occasione me ne scelsero una per illustrare un loro articolo tecnico sulla luce radente. Poi successe il fattaccio: immisi una fotografia raffigurante il mio membro virile eretto. Attenzione però: si trattava di una immagine dal marcato taglio astratto, grafico. Occupava quasi l’intera diagonale del fotogramma ed vedeva sovrapposta più d’una texture. Il risultato era una immagine corposa nel segno ma rarefatta nell’espressione, prosciugata dalla letteralità della raffigurazione. Assai lontana dalla fotografia originale prima del flusso postproduzionale. Ed era la fotografia originale ad essere oscena, quella che nessuno ha visto. Non però per ciò che qualcuno di voi potrebbe pensare. Era oscena perché non dotata di pulizia formale. Una luce cadeva malamente di taglio, lo sfondo era confuso ma indesideratamente articolato, una porzione di pianoforte assegnava un indebito peso ad un lembo dell’inquadratura. Tornando all’immagine definitiva, quale è stata la reazione? Radiato a vita. Con una motivazione non del tutto priva di ragione: “our website is for all ages”.
Questo ci rimanda alla transitorietà del dato culturale. Ma se mutamento vi è, l’analisi della storia dovrebbe consentire di relativizzare. Nella fattispecie, ad individuare all’istante nella mia fotografia un rimando totemico al mito della fertilità.
Molto più recentemente, anch’io come Grassi ho inserito un post in Facebook. Telegraficamente spiegavo l’accaduto ed allegavo prima la fotografia “didattica” utilizzata da un componente della Redazione per un articolo tecnico sulla luce radente, indi l’immagine “incriminata”. Ebbene, dopo una manciata di minuti la seconda fotografia è sparita. Inizialmente pensavo a un mutamento di impaginazione, come se Facebook non consentisse più di abbinare due files in un unico post. Poi, mi sono informato ed è emersa la faccenda dell’algoritmo.
Sarebbe istruttivo – e forse, ilarizzante – parlare con lo sviluppatore del suo nominativo algoritmo.
Cosa lo attiva?
Parrebbe bastare un capezzolo, ma solo se contornato da acconce linee curve.
E chissà quanto lavoro acciocché il software sappia destreggiarsi tra toni, consistenze, materiali e allusioni visive alla tridimensionalità. Affinché esso sappia elevarsi dal mondo sensibile a quello delle idee, da φαινόμενα a νοοῦμενα, dal tangibile all’astratto.
Ecco, un algoritmo metafisico.
Non lo è, di tutta evidenza.
Non discerne l’intento, nè l’infusione semantica.
La fotografia a corredo di questo brano, messa alla prova in Facebook, ha dato esito “negativo”.
Badate, sto evocando la terminologia medica: non ha rilevato patologie.
È una immagine che avevo realizzato da tempo, accostando la mia Rolleiflex ad un mio dipinto ad olio, con intermedia opacità. Eppure gli ingredienti ci sono: capezzolo e congruente sottostante arcuazione.
Occorrerà lo sviluppatore dell’algoritmo gli faccia studiare un buon trattato di storia dell’arte.
E di filosofia.
Divenendo un giorno Algoritmo Divino, pronto a sconfiggere il Dio Ingannatore di Descartes.
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Claudio Trezzani
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