Evitare il mosso.
Evitare dominanti.
Fornire una rappresentazione fedele al reale.
Non stravolgere l’immagine in ambito postproduzionale.
Qui – nella fotografia a corredo di questo brano – ho diligentemente ottemperato all’ultima delle summentovate istanze.
Perché non ho modificato niente, al computer.
Immagine proposta come sfornata dalla fotocamera, insomma.
Così però non ho soddisfatto i primi tre presupposti.
Il mosso, c’è.
La dominante cromatica, anche.
La fedeltà, ita, come direbbe un compilatore di cruciverba.
Perché non cestinare, allora?
O dell’importanza della relazione tra intento e risultato.
Si voleva una cosa, ed essa è stata ottenuta.
Non basterebbe ancora, se l’esito non è veicolato ad una proposizione intellegibile.
E se la proposizione intellegibile non contiene una direzione congruentemente interpretabile.
Se non evoca, se non esprime.
Riva di fiume, notturnamente.
Quattro secondi di esposizione, dispositivo brandito a mano libera.
Le barche, i pali, si raddoppiano.
La riva diviene uno sciame indistinto, prepotente per luce e colore.
Ma non soddisfa, spinge a distogliere lo sguardo.
Su, allora.
La tessitura si fa diafana, ma dettagliata.
Il giallo cede al verde, il rosso discretamente contrappunta.
Sì, abbiamo tradito il reale pur senza modificare il file.
Chi era lì, non vedeva così.
Eppure il risultato è il prodotto di una prassi che è il frutto di una intenzione.
Quando si fa, ogni cosa è manipolazione.
Finalizzata ad una visione, non necessariamente unisensoriale.
La fotografia plasma il reale, i modi si diramano in potente guisa centrifuga.
Le regole sono cardini dinamicamente intesi.
Come in una porta, non mutano sè stessi ma conducono altrove.
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Claudio Trezzani
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