William Henry Johnson, smagliante pittore statunitense.
Con un laghetto che lì non potrebbe stare.
Come sarebbe?
Nel panorama montano che ha dipinto ha deformato la liquida distesa violando le leggi della prospettativa.
Per risultato, una immagine potente, espressiva.
E noi fotografi, possiamo?
Be’, i difetti ottici di alcuni obiettivi nonché determinate caratteristiche intrinseche di altri ci spingono ad esclamare: “non è colpa nostra!”.
Di colpa si tratta?
E se sì, di chi?
A contare è l’intenzione che s’innesta sul possibile.
Volevamo una chiesa dritta in un piazza poco profonda e non ci siamo riusciti perché non avevamo con noi un decentrabile?
La colpa c’è ed è nostra.
Desideravamo comprimere i piani ed abbiamo potuto farlo mercè l’impiego di una focale lunga?
La colpa non c’è ed il merito – se la fotografia è di vaglia – è nostro.
Avevamo d’innanzi un palo in acqua e abbiamo realizzato l’inquadratura inclinata che avevamo in mente?
Lecito.
Avevamo davanti una barca tra pali e abbiamo raddrizzato i pali postproduzionalmente?
Qui esito, anche se – lo vedete nella terza immagine a corredo di questo brano – l’ho fatto.
Fedeltà, verosimiglianza.
Detrimento alla seconda, e quanto alla prima?
Be’, si potrebbe eccepire che la fedeltà è andata all’idea e non alla riproduzione letterale.
Ma il terreno è scivoloso, in questo caso liquido.
E si, fortemente esito.
Perché tradire, in iconografia mediata (dal mezzo fotografico) è una sirena insinuante ed insidiosa.
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Claudio Trezzani
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