Imitare.
È la stessa radice latina da cui proviene imago, immagine.
Oscar Wilde asseriva la vita imitare l’arte più che viceversa.
Lo sappiamo, amava coltivar paradossi motteggiando.
Qui epperò siamo al visibile – imago, immagine – che reca una verità intrinseca, offrendosi allo sguardo.
Così, imitare è mostrare un possibile autentico quando s’esprime.
Mare.
Pre-esiste alla percezione.
Gustave Corbet nel 1865 lo ha di fronte, il mare.
Lo vede, lo pensa.
Ma non lascia che sia un mezzo a proporlo.
Lo pensa, indi lo ricostruisce.
Ecco, nell’immagine a corredo di questo brano, il risultato della proiezione mentale.
Poi arriva Karim Bouchareb, anche la sua fotografia è allegata a questo articolo.
Badate, l’astrazione che promana non discende da una modifica.
Conosco la situazione, il mare viene così traverso lunghissime esposizioni con poca luce.
Sì è servito del mezzo, Karim, ma lo ha governato.
Senza sostituirsi al primigenio sembiante, lo ha piegato al suo desiderio.
Di riprodurlo, sì, ma nella condizione agognata.
Sia Coubert che Bouchareb hanno “imitato” il mare.
La tabula rasa che è la tela si riempie di un pensiero che è figlio di una pregressa evidenza, dunque non avulso da una effettività terza (il mare com’era quando era).
E il fotografo ha documentato rileggendo.
La sua rilettura appone uno strato concettualmente non dissimile da quello del pittore.
In entrambe i casi è la mente che agisce.
Una libertà che non prescinde da una ricezione.
La ricezione è scaturigine di un impulso esterno.
Il mare era lì, a ciascun rimiratore facoltà di cucinare la propria emozione.
Fotografia, pittura, due volti di una comune adorazione.
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Claudio Trezzani
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