La virtù del togliere

Paul Auster, considerato uno dei maggiori scrittori statunitensi viventi. Diffido delle massimizzazioni, ma l’uomo vale.

Ad un suo personaggio fa dire che la comunicazione visiva non lascia sufficiente spazio all’immaginazione. Che più i film tentano di approssimare la realtà, meno riescono a rappresentare il mondo, poiché esso sta dentro di noi non meno che attorno. Che stando così le cose, è meglio togliere colore e suono. Che così depurata la visione dall’illusione della plausibilità, si offre all’occhio una sintassi e una grammatica della cinesi pura.

Ecco, il movimento. Noi fotografi non abbiamo nemmeno quello. Siamo messi male, allora? Secondo il principio della depurazione, del prosciugamento, l’essenzialità di mezzi dovrebbe anzi apportare icasticità al linguaggio. Ricapitolando: niente colore, niente suono, neppure il movimento. Rimane solo il segno? Qui le cose apparentemente si ingarbugliano.

Anche il testo scritto consiste di segni, ma essi rappresentano una condicio sine qua non per essere trasportati altrove. Insomma, lì i segni sono un contenuto/non contenuto. Lì la grafia non costituisce ipso facto linguaggio, ma mera veicolazione di codice.

Abbiamo imparato a scuola che quei segni corrispondono a parole, e sono queste a condurci altrove. Nel regno dell’immaginazione, per tornare all’assunto iniziale.

Nella fotografia invece il segno è sia tratto che simbolo. Tratto, perché episodicamente può trovare compiutezza in sé. Simbolo, perché basta poco ad esso per fungere da trampolino verso l’altrove. Un altrove che è ponte, mediazione. Come dicevo di Auster, il mondo sta dentro di noi non meno che attorno.

Così ogni visione di una fotografia diventa una operazione allotropica. L’etimologia è greca “allos”=”altro”; “tropos”=”trasformazione”

L’osmotica collisione tra rappresentazione allestita dall’autore e interiorizzazione vissuta dal fruitore determina – ogni volta – un esito terzo che espande la potenzialità semantica del segno divenuto simbolo.

Più si toglie, più ci si riserva d’aggiungere.

E poi, il movimento: quale migliore sua celebrazione della sua imperitura fissazione?

 

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Claudio Trezzani

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