Sapete, sono addivenuto ad una risoluzione drastica, draconiana, manichea: non apporre più il rituale “mi piace” alle fotografie – anche quelle che m’aggradano assai – dell’eccellente Roberto Besana, quando corredate dalla dicitura – un vero e proprio leit motiv in Roberto – “con il cane e lo smartphone“.
Bene, benissimo per il cane.
Male, malissimo per lo smartphone.
D’altronde s’ha da agire “ne dehonestaretur”, come direbbe Tacito.
Od esclamare “o tempora, o mores!” con Cicerone.
Solo che lo strale non è scagliato verso Verre o Catilina.
Verso il summentovato smartphone, e piuttosto.
Ma siamo in una frase di transizione.
In “Non senza fedora” m’occupavo di gloriose ed ingombranti grandi formato a pellicola impiegate per la fotografia di strada.
No, non più quelle.
Ma no, non ancora smartphone.
Sapete, una volta vi erano fotografi che non solo erano organici a redazioni giornalistiche, ma avevano la stessa attrezzatura pagata dal giornale.
Magari contrattualmente inquadrati come operai, ma con l’Imperiturità dell’Aulico Tempo Indeterminato.
Oggidì, talvolta i giornalisti li mandano fuori da soli.
Senza fotografo, eccioè.
Ecco allora la funzione del sì appellato smartphone:
darlo a loro.
Che spendano pure più di mille euro, o contrattino l’oggetto in guisa di fringe benefit.
Certo, dovranno sopportare in tasca quegli oggettini con la fastidiosa gobbetta (tre o quattro obiettivi moderatamente sporgenti, sulla falsariga delle vecchie cineprese a torretta), ma poi il dispositivo li affrancherà da ogni preoccupazione.
Non sapranno neanche quando la macchina cambia obiettivo, loro.
Basterà fare un gesto, a loro.
Nè sapranno se il mutare della focale sarà da imputare al succitato cambio, o se invece si tratterà di un intervento digitale.
Epperò così “porteranno a casa il risultato”, loro.
Brutale espressione per brutale operazione, la loro.
Anche più di qualcuno, già lo fa.
Il caporedattore non protesta, anzi li ha mandati lui, loro.
Ma che non dicono “mi manda la BBC”, loro.
Perché esistono ancora sacrari, baluardi di civiltà quando mala tempora currunt.
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Claudio Trezzani
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